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La lettura storica dei film è, dalla fine degli anni sessanta e dagli scritti di Marc Ferro e Pierre Sorlin, pratica consueta per gli studiosi dell'età contemporanea. Molto più raro è il caso di storici di età precedenti che si siano occupati di cinema dal punto di vista della propria disciplina: per questo è interessante che due modernisti, Carlo Ginzburg e Natalie Zemon Davis, abbiano a distanza di tempo percorso strade per certi versi complementari.
Al centro di un saggio del 1983 (Di tutti i doni che porto a Kaisàre
Leggere il film scrivere la storia, in "Storie e storia", n. 12), Ginzburg poneva la nozione di spaesamento: cioè la capacità di alcuni film e di alcuni libri di storia di meravigliare, facendo intravvedere il diverso da ciò che ci si aspetta, "contro una percezione che livella". In particolare Dies irae di Dreyer conteneva per Ginzburg "una grande intuizione storiografica": nella scena dell'interrogatorio dell'anziana sospettata di stregoneria tutto posture, abbigliamento, dialoghi, inquadrature convergeva a mostrare la situazione non "come uno scontro tra il bene e il male, ma come uno scontro tra perseguitati e carnefici, entrambi in buona fede, e quindi senza anacronismi".
Nel volume di Zemon Davis ritorna invece più volte il concetto di "plausibile", vale a dire qualcosa che serve ad avvicinare alla verità e utile come "esperimento di pensiero". Zemon Davis è storica attenta soprattutto a vicende collettive di gruppi marginali e a biografie dall'andamento avventuroso. È anzi proprio per aver partecipato come consulente alla realizzazione del film Le retour de Martin Guerre, mentre in parallelo scriveva il libro omonimo, che Zemon Davis incominciò a considerare il film storico come un "esperimento di pensiero": una buona storia da raccontare per iscritto può essere anche una buona storia da mettere in immagini. Il problema è allora capire "quanto siano rilevanti per la qualità storica e per l'attendibilità di un film" le regole scientifiche del fare storia, che Zemon Davis così riassume: mantenere la distanza dal passato, rendere accessibili le fonti, dichiarare vuoti e lacune documentarie, non giudicare, non falsificare.
Questi discorsi si applicano qui a cinque film accomunati da un tema forte, la resistenza alla schiavitù: Spartacus di Stanley Kubrick (1960), Queimada di Gillo Pontecorvo (1969), La última cena di Tomás Gutierrez Aléa (1976), Amistad di Steven Spielberg (1997), Beloved di Jonathan Demme (1998). Il libro non è una mera tassonomia di ciò che è o non è storicamente plausibile in ciascuno dei film, ma una serrata analisi su più fronti: la genesi di ciascun film, comprese le motivazioni personali di produttori, sceneggiatori, registi, attori; il rapporto con le fonti scritte romanzi, saggi, documentazione originale usate per la trasposizione cinematografica; la funzionalità delle variazioni usate nella finzione; l'attenzione agli aspetti storicamente meno accessibili della vita degli schiavi: e dunque religiosità, spiritualità e spiritismo, senso e pratica della famiglia e dei legami. Ma, soprattutto, l'esercizio di immaginare soluzioni narrative e filmiche diverse da quelle adottate: contro le tendenze ad assimilare il passato al presente, anche lo sguardo dello storico che si fa creativo può essere occasione di spaesamento. Germana Gandino
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