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DUBY, GEORGES / GEREMEK, BRONISLAW, La storia e altre passioni, Laterza, 1993
ARIèS, PHILIPPE, Uno storico della domenica, Edipuglia, 1993
recensione di Sergi, G., L'Indice 1993, n.10
La prima reazione di fronte a titoli come questi, in libreria, è che non se ne può più. Ma perché gli storici non fanno il loro mestiere in silenzio? O meglio perché, all'uscita da archivi e biblioteche, nelle pause del loro insegnamento universitario, non scrivono solo libri di storia? E perché intervistatori e lettori continuano a costruire le fortune del narcisismo storiografico? Si può, alla grossa, rispondere con due ipotesi. La prima è che da sempre nella cultura europea (lo ribadì Yerushalmi qualche anno fa) la storia è messa sul piedistallo, se ne vogliono trarre troppi insegnamenti e di conseguenza lo storico è vissuto come una sorta di stregone. La seconda - speculare alla prima - è che c'è un desiderio diffuso di torturare gli stregoni e far loro ammettere che la verità non esiste, che per ricostruire il passato bisogna integrare e attingere alla propria esperienza: cose ovvie, e francamente un poco noiose. I libri di questo tipo stanno a metà fra l'atto di contrizione (che il pubblico colto chiede agli storici) e il compiacimento (degli storici che, prendendo le distanze dall'erudizione ingenua, evitano di passare per sprovveduti).
Fatta questa premessa, salviamo questi due libri. L'autobiografia di Ariès perché e la testimonianza autentica, sofferta e anche ben scritta di uno studioso atipico, oggetto al tempo stesso di maldicenze e di sopravvalutazioni. L'intervista a Duby e Geremek perché affronta il mestiere non nei suoi metodi astratti ma nei suoi contenuti: è una bella rassegna dei temi della medievistica attuale.
C'è meno passione nell'opera che ha le "passioni" nel titolo. Sono molto diversi, quasi inconfrontabili, gli itinerari che hanno condotto i tre studiosi alla scelta della storia. Per Aries si tratta di quella che Maria Antonietta Visceglia - nella calibrata introduzione, al tempo stesso curiosa e disincantata - definisce "compatta circolarità tra esperienza individuale e storiografia": con Aries adolescente si stava formando, in una famiglia monarchica e cattolica ultratradizionalista, l'uomo di destra desideroso di trovare nel passato i valori di lunga durata. Qui si tratta di vera passione per il passato dunque: arricchita (o inquinata?) dal travaglio ideologico. Per Duby e per Geremek il medioevo è invece l'approdo - significativo ma non obbligato - di due primi della classe che in ogni caso avrebbero fatto un mestiere intellettuale. Duby, attratto dalla filosofia, fu indirizzato verso la storia da un professore che gli spiegò che era meglio che si occupasse "di cose piuttosto che di parole". Non cedette alla frustrazione. Le "cose" si presentarono prima al giovane studioso con il volto della geografia poi, attraverso la lettura fondamentale e folgorante delle opere di Marc Bloch, si identificarono con la storia medievale: ma non per attrazione specifica, bensì perché appariva a Duby come "spazio di ricerca molto favorevole a una riflessione metodologica''. Geremek addirittura si iscrisse, in un primo tempo, a medicina Poi passò alla storia contemporanea; ma, per sfuggire ai condizionamenti della cultura di regime, come altri storici polacchi scelse il medioevo: un rifugio per l'autonomia della ricerca, una scelta che Geremek stesso attribuisce al "caso". Nulla di vocazionale, dunque, nell'attrazione per il medioevo di due dei maggiori medievisti del nostro tempo: e questa constatazione è di un certo conforto, vuol dire che si possono raggiungere ottimi risultati con la serietà, con il libero uso delle doti mentali e senza febbri erudite.
Ariès ha un percorso di formazione molto personale: è sostanzialmente un autodidatta, che trae energia dal dialogo con militanti di Action francaise focosi e attivissimi, come Henry Boegner e Pierre Boutang, ma si ritaglia spazi di ricerca individuali, rispetto ai quali il suo stesso mondo è diffidente. Non è attratto da un periodo storico da approfondire, ma dalle società tradizionali, dal passato nel suo insieme, dal fluire di certi valori fino al presente: o meglio, fino a quell'Ottocento amato dallo storico francese come una sorta di età dell'oro prima della degenerazione. Invece in Duby e Geremek ha peso un interessante tipo di maestri: maestri generosi, e proprio per questo più bravi come insegnanti di quanto siano stati conosciuti come studiosi. Jean Déniau, poco noto ma molto stimato da Bloch, con la sua abilità didattica converte Duby dalla geografia alla storia. Marian Malowist mette la sua enorme competenza tecnica a disposizione del giovane Geremek e ne indirizza gli interessi sulla storia economica del tardo medioevo.
Ma passiamo ora della scoperta alla pratica della storia. Per Ariès è diventato un mestiere in anni recenti. È stato per anni "storico della domenica" perché il suo lavoro consisteva in compiti direttivi entro un istituto francese di assistenza tecnica ai paesi in via di sviluppo. La sua famiglia, per metà di Bordeaux e per metà di francesi emigrati in Martinica, riesce quasi da sola a diventare campo di riflessione per il giovane intellettuale. Innanzitutto lo indirizza ideologicamente: duramente conservatrice costituisce un sistema di riferimento con cui Ariès non è mai in polemica n‚ tanto meno in rottura. Poi si presta come modello di quella "parentela" che rispetto alla famiglia nucleare era al tempo stesso più pervasiva e più ricca di potenzialità: perché i bambini potevano scegliere i loro interlocutori a loro gusto e cambiarli secondo le circostanze, e quindi vivevano con anticipo una socialità ricca, coatta si ma entro confini larghi.
Sono divertenti irrisioni di Ariés nei confronti di Lawrence Stone e altri che, tra gli anni sessanta e settanta, "scoprivano" le sue simpatie monarchiche e reazionarie: non le aveva mai nascoste, come dimostra la militanza in Action francaise e il lavoro in riviste culturali di destra. L'autobiografia tradisce imbarazzi sulla politica del primo dopoguerra (è indubbia la sua differenza dal fascismo, ma in qualche modo dal collaborazionismo fu coinvolto, e fu poi decisamente antiresistenziale), sincera delusione per la vicenda algerina (era convinto che l'Algeria fosse ormai profondamente francesizzata) e infine, punto d'arrivo, un compiacimento un po' vendicativo nell'essere stato scoperto - proprio lui - dalla cultura del Sessantotto, per ragioni in realtà non superficiali, bensì per la comune ideologia antiindustriale: ciò mentre Ariès è deluso da una destra convertita al culto della società opulenta.
Per Ariès storico in formazione non esiste l'odierna storia politico-istituzionale attenta ai dati strutturali, mentali e antropologici. L'identificazione semplicistica fra storia politica è 'histoire evenementielle' è dunque scontata: l'avversaria è la storia che copre "come una pellicola" la vera storia, anche se ammette di aver appreso tardi che "la virtù della storia non è quella dell'esemplarità'', l'esemplarità della storiografia "capetingia" delle vecchie cattedre francesi, quella della lezione degli eventi, quella delle cause e degli effetti. I suoi temi (l'infanzia, la morte, le grandi scansioni del vivere sociale) lo conducono sui terreni del rinnovamento storiografico e delle scienze sociali: scopre a posteriori le sue convergenze con Febvre, Braudel, persino con Foucault, è sottratto alla "quarantena" da un articolo - critico ma non aggressivo - di Flandrin sulle "Annales" del 1964, acquista familiarità con una certa storiografia meridionale (Agulhon, Castan, Le Roy Ladurie), a suo avviso più attenta allo "sociabilità" proprio perché nel Sud si sarebbe conservato di più il senso di forme di vita collettiva. La qualità letteraria e umana di questa autobiografia è notevole, il percorso storiografico è davvero interessante e anomalo. Ricorre spesso il concetto di fedeltà. Un concetto assoluto: noi deduciamo che è fedeltà al passato, ai valori familiari, al gruppo di amici, ma "fedeltà" è per lui valore in se. Qui sta la simpatica coerenza ma anche il limite di un'esperienza intellettuale di cosi alto livello. Il suo stesso libro è fedele, e nelle molte pagine dedicate alla dimensione quotidiana dei suoi ambienti reazionari non compare mai uno scemo: mai, neppure uno solo. Possibile? E dire che ciascuno di noi ne ha incontrati tanti, se pur su sponde diverse!
Le pagine che Philippe Sainteny ha abilmente estorte a Duby e a Geremek costituiscono un'eccezionale raccolta di messe a punto, ai confini fra la pratica storiografica e la più complessiva attività intellettuale. Il nonno di Duby era artigiano del cuoio, e il nipote dice di derivarne nella sua attività "il lato artigianale, il gusto dell'oggetto ben fatto, fatto con le mani... lo storico del medioevo è costretto a lavorare in bottega. Come sul bancone, egli sistema i testi. Li prende, li lavora, cerca di ammorbidirli, di assemblarli". Duby ammette che i medievisti devono il loro successo al fatto che il medioevo è il Far West degli europei (con "le virtù sognate, immaginarie, degli antenati"), ma polemizza con gli storici corrivi (come Régine Pernoud) che dalla vena nostalgica si lasciano condizionare in ciò che scrivono; avverte che la storia può essere anche "pericolosa, quando propone un gran numero d'immagini suscettibili di servire come garanzia per qualunque operazione politica"; nega "assolutamente" che la storia si ripeta, affermando che "l'idea popolare di un ritorno ciclico è fondamentalmente falsa" e prende le distanze da Braudel che attribuiva allo storico, come esperto di transizioni, "attitudini alla futurologia"; invita a occuparsi dell'Europa e delle sue frontiere "allontanandosi dalla storia" e progettando ex novo; a proposito degli storici "revisionisti" del nazismo auspica non esorcismi, ma discussioni aperte in cui vengano fuori le loro "menzogne".
Geremek dice che il medioevo è per la nostra cultura l'"esotico vicino"; identifica due idoli polemici nella "leggenda rosa" del medioevo (un medioevo cristiano e gerarchizzato, definito "sogno pericoloso", con rischi integralisti vivi soprattutto in Polonia), e nella "leggenda nera" (il periodo contenitore di tutte le disfunzioni e di tutte le nequizie); osserva che i molti bravi medievisti non hanno per ora neppure intaccato i "luoghi comuni" ma devono continuare il loro "sforzo di demistificazione" cercando di volgere a loro favore la passione del pubblico per quei secoli; si rammarica che "la curiosità del grande pubblico per la storia sia alimentata dalla ricerca di una somiglianza fra il passato e il presente, più che dal gusto della differenza" e prende garbatamente le distanze da Braudel (anche lui, è una tendenza attuale) che era più sensibile alle somiglianze rispetto a Bloch, attratto dalle differenze; sorride sull'ingenuità degli occidentali che parlano di nazionalismi `'risorgenti" nell'Est (non erano morti, ma in fondo non erano neppure veri nazionalismi, bensì forme collettive di resistenza anticomunista); manifesta pessimismo sulla Polonia attuale, con "una società civile meravigliosa che non ha saputo sopravvivere alle difficoltà della vita quotidiana" e con il "cattivo segno" della chiesa che interviene troppo nella vita politica.
Duby spiega con grande concretezza il suo interesse per i secoli X-XIII: è un "periodo di esuberanza, di effervescenza", all'interno del quale ha studiato soprattutto le campagne e la nobiltà perché sono le realtà più documentate. Quei secoli gli hanno consentito di rivalutare i poteri locali ("la signoria rurale non era soltanto oppressione, era anche sicurezza sociale") e la mobilità del mondo medievale, in cui gli intellettuali costituivano una "comunità" sovranazionale dagli assidui contatti. Geremek invece prima ha scelto l'oggetto poi i secoli in cui la documentazione fosse sufficiente: l'economia e la stratificazione sociale, la vita dei poveri e dei marginali. Sono scelte in cui molto ha pesato una formazione marxista tuttora non rinnegata: un'impostazione, un modo di pensare ancora oggi utile, anche se "il medioevo è la parte debole nella teoria di Marx". Ma in tutti i suoi studi, già nei primi, Geremek tiene conto di elementi che un tempo si sarebbero definiti "sovrastrutturali", come gli stili di vita, la percezione del mondo, la mentalità. Ciò mentre Duby prende le distanze dalla definizione di storico delle mentalità, perché mentalità è termine che non soddisfà più" e le ricerche più attuali sono quelle sui "giudizi non formulati", sui "sistemi in movimento" che "circondano... il pensiero chiaro": una sorta di cultura inconsapevole per cui il medioevo è campo di studi adattissimo.
Un pregio del libro è di aver messo davvero in relazione gli interlocutori. Non solo i due intervistati e Sainteny (Duby, sollecitato, osserva che in effetti, a differenza del giornalista, lo storico avrebbe avuto più prudenza di fronte alla vicenda rumena e alla foto montatura di Timisoara), ma anche i due storici fra loro. Qui, anzi, emerge una singolare dinamica delle risposte. Il "non laico" ma "istintivamente anticlericale" Duby prima dichiara "lo spirito di crociata mi disturba visceralmente... questi monaci impegnati nella guerra santa mi ripugnano un po'"; poi, dopo aver ascoltato Geremek ("non ateo, n‚ ebreo, n‚ cristiano") introdurre l'elemento della "guerra giusta" e trovare anche "qualcosa di buono" nelle crociate, modera i suoi giudizi o almeno smussa la durezza verbale.
Manca lo spazio per riferire delle parti meno storiografiche, quelle in cui i due storici si raccontano nei loro rapporti con il presente e con il mondo, che per l'uno è soprattutto il mondo dell'informazione francese, per l'altro quello della politica polacca. Ariès, Duby, Geremek, con i loro percorsi diversi, hanno in comune di non essere affatto vittime del burn out, la crisi di appagamento degli arrivati, la carenza di mete che rinchiude in se stessi e toglie le forze. Loro non solo studiano ma viaggiano, visitano, assaggiano, parlano, ascoltano. Sono curiosissimi e instancabili: beati loro, ma, ammettiamolo, beati anche i loro lettori.
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