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1986
1 gennaio 1997
XXII-1045 p., ill.
9788806597252

Voce della critica


recensione di Andreucci, F., L'Indice 1987, n. 7

Dotata di una forte identità culturale, segnata dai confini e dalle tradizioni dell'antico stato regionale, la Toscana non ha dato particolare alimento alla discussione sulla legittimità di una storia d'Italia per regioni che ha accompagnato la pubblicazione dei volumi di Einaudi. Anzi nel volume curato da Giorgio Mori, l'opportunità di un taglio regionale viene rafforzata e, soprattutto, argomentata da un'eccellente ricerca. L'insieme dei saggi che compongono la storia della Toscana dà infatti di quella identità regionale un'immagine nuova e convincente, non ancorata al vecchio ciarpame della mitologia strapaesana della "toscanità" ma aperta, al contrario, all'indagine su ciò che cambia, sul come e sul perché del cambiamento.
Come lasciano intravedere sia l'immagine che campeggia sulla copertina del volume, sia le altre della bella sezione fotografica di Maurizio Berlincioni, delle trasformazioni vissute in un secolo dalla Toscana si vuol sottolineare soprattutto l'immagine finale, il punto d'approdo. E questo sarebbe rappresentato da una "modernizzazione a rischio", secondo l'efficace espressione di Giuliano Bianchi, da una industrializzazione diffusa, policentrica, fortemente segnata dalla crisi della mezzadria e dalla polverizzazione dei 400.000 mezzadri nell'industria leggera e nei servizi. Ma, alla fine, da un esito non negativo, dalla vitalità di un modello invece che dal suo esaurimento. Uno sviluppo, tuttavia, contraddittorio e a salti, a totale negazione di ogni linea di continuità fra la Toscana di Bettino Ricasoli e quella delle sfilate di moda di Palazzo Pitti; uno sviluppo, infine, al quale non si suggerisce di guardare con l'ottimismo "progressista" che ha contraddistinto la cultura politica dei gruppi dirigenti regionali, ma col pessimismo di chi comprende le contraddizioni e le lacerazioni dello sviluppo.
Il saggio introduttivo di Mori è senza dubbio il lavoro più impegnativo e consistente di tutto il volume: in quasi trecentocinquanta pagine, Mori offre una ricostruzione assai efficace della parabola tracciata dal gruppo dirigente moderato - la Consorteria dei Ricasoli, dei Peruzzi, dei Cambray-Digny - fra l'unità e la prima guerra mondiale, in parte riprendendo i temi che la storiografia ha fatto consolidare sulla storia toscana, in parte effettuando un lavoro sulle fonti e sui problemi del tutto nuovo e originale. Ciò che colpisce particolarmente per la sua ampiezza e per la sua novità è infatti lo scenario sul quale la parabola dei moderati toscani è disegnata: il mezzo secolo di trasformazioni economiche, sociali, politiche vissuto dalla regione è tratteggiato in modo straordinariamente ricco - a volte addirittura ridondante - sulla base di fonti e di punti di vista mai finora riuniti in un orizzonte spazio-temporale così esteso.
L'iniziale flash back sul periodo preunitario serve a Mori per sbalzare il cambiamento del ruolo e dei compiti dell'élite moderata, le trasformazioni nella struttura demografica, l'incidenza della speculazione nei colpi inferti alla fisionomia delle città e in particolare a Firenze, i limiti della modernizzazione, i meccanismi affascinanti della formazione e della maturazione delle classi: alfabetizzazione, ideologie, stili di vita analizzati minutamente, dal consumo del tabacco a quello dei libri nei gabinetti di lettura.
In una parola, l'affermazione e la crisi della Consorteria è messa in collegamento con tutta la serie di appuntamenti ai quali la Toscana viene chiamata a partire dalla formazione dello stato unitario: la relativa estraneità della regione ai modi e ai tempi dell'industrializzazione, i limiti di quel connubio fra proprietà terriera e finanza che non riuscirà a superare la fine del secolo e scomparirà quasi del tutto in età giolittiana, il fallimento, infine, dell'ipotesi moderata fondata sulla mezzadria con le prime tensioni subite dall'universo mezzadrile ai primi del secolo.
Eccellente come autore, Mori non ha azzeccato l'organizzazione complessiva dell'opera. Il volume, infatti, al di là del valore dei singoli saggi, presenta due limiti abbastanza visibili: da una parte l'assenza di un modello esplicito di riferimento in grado di dare ordine e indirizzo all'enorme materiale raccolto, dall'altra la discutibile struttura interna.
Cominciamo dal primo punto: il lettore che volesse conoscere non solo i personaggi e la trama della vicenda, ma anche "come va a finire", non avrebbe la possibilità di seguire un filo, ma dovrebbe rivolgersi all'unico saggio del volume in grado di esprimere in termini espliciti la problematica di lungo periodo della storia toscana e cioè alle riflessioni di Giacomo Becattini sullo sviluppo socio-economico della regione.
Nel saggio di Becattini - che avrebbe potuto costituire una specie di introduzione polemica al volume per la critica severa al mito della Toscana - sono ampiamente discussi i termini del modello regionale caratterizzato dallo sviluppo diffuso dell'industria leggera e dai collegamenti di quest'ultimo con la mezzadria e la sua crisi. Tre sono i punti che Becattini sottolinea per definire il relativo dinamismo vissuto dall'economia toscana dopo la seconda guerra mondiale: la dimensione internazionale sempre presente nella vita sociale, culturale ed economica della regione, la mezzadria stessa e il carattere policentrico della rete di relazioni umane. È proprio fra la guerra e la Resistenza che la regione che Ridolfi aveva chiamato "un'immensa città rurale", viene scossa nella sua storia. Ed è in quell'esperienza che trovano le loro radici tutti i successivi stimoli al cambiamento, segnali dalla disintegrazione della mezzadria, dallo sviluppo della piccola industria e dal pieno dispiegarsi di un altro dei caratteri propri della fisionomia culturale della regione, il consenso comunista.
L'altro punto da discutere riguarda la struttura e l'articolazione per temi del volume: non vi è dubbio che la successione e l'andamento dei saggi abbiano una loro logica. Dopo il lavoro di Mori seguono infatti quattro robusti saggi sul periodo 1914-1945 che costituiscono la seconda parte dell'opera. Il primo di essi è quello di Simonetta Soldani sulla grande guerra lontano dal fronte (un taglio davvero originale che riesce a legare il significato di un grande avvenimento -inspiegabilmente assente dalle altre storie regionali - con i ritmi rapidi e le origini remote del cambiamento vissuto dalla regione fra il 1915 e il 1918), mentre gli altri tre affrontano da un punto di vista monografico (Turi sulla cultura, Palla sul Pnf, Preti sull'economia) il problema del fascismo.
Poi, con la frattura della seconda guerra mondiale, l'intreccio degli interventi da ottiche pluridisciplinari (splendido il saggio di Lando Bortolotti sulla geografia e l'assetto del territorio che integra e spiega le coordinate spaziali del modello toscano) lascia poco spazio alla ricostruzione storica vera e propria, come se - secondo vecchi clichés duri a morire - la storia contemporanea fosse impossibile. Una simile impostazione doveva addirittura essere rovesciata: più spazio alle discipline non strettamente storiche nelle spiegazioni dei caratteri originali della Toscana e più spazio alla storiografia nella ricostruzione degli ultimi cinquant'anni. Un tema ad esempio come la "questione della lingua" che segna uno degli elementi chiave del rapporto fra la Toscana e l'Italia poteva certamente essere affrontato attraverso uno dei tanti stimoli ancora vivi nella ormai classica storia linguistica dell'Italia unita di Tullio De Mauro, così come alcuni aspetti della fisionomia culturale della mezzadria potevano essere illuminati da ottiche antropologiche.
La discussione di quello che non c'è non può fare a meno di toccare un ultimo punto: l'antifascismo. Colpisce (e ne è una prova ulteriore la scelta di Prato industriosa e non di Livorno sovversiva come case study) che la Toscana "scristianizzata", "ribelle", "rossa" suggerita in tante pagine del volume non abbia trovato nel tema della lotta contro il fascismo una trattazione adeguata tanto più che alla definizione dei connotati della subcultura rossa della regione alcuni degli autori del volume (Bagnasco , Rossi , Santomassimo) hanno contribuito in modo significativo.
Il saggio di Camarlinghi su Firenze, come quello di Garin sulle vicende recenti della cultura, introduce nel volume un vivace elemento di passione politica coi suoi giudizi sulla fragilità culturale del gruppo dirigente comunista e con una certa nostalgia della pattuglia di intellettuali proveniente dal partito d'azione. È vero, la pressione turistica e la spcculazione commerciale hanno ferito il centro storico dell'ex-capitale, e ciò è avvenuto in anni di giunte di sinistra; ciò rinvia anche, però, ai connotati del partito socialista che proprio a Firenze, dei settori mercantili e di una certa speculazione di origine massonica si è fatto esplicito portavoce e tutore.
Percorse da stimoli e da indirizzi di lavoro differenti e a volte in contrasto, queste storie di regioni assomigliano sempre di più ad annali, nei quali la cultura storica italiana si specchia e si vede rinnovata. È un rinnovamento, tuttavia, che aspetta ancora di consolidarsi in una prospettiva di più lungo respiro. In fondo, con le molte "nuove" storie scritte negli ultimi anni sarebbe forse il tempo di una nuova storia d'Italia: così almeno sembrano suggerire -ed è un grande merito-gli ultimi volumi delle storie einaudiane.

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