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recensione di Camanni, E., L'Indice 1996, n. 3
"La favorevole congiuntura internazionale, con le 'grandes voitures' di mercanti che partivano dal centro Italia per raggiungere i mercati di Francia e delle Fiandre, aveva reso, nel Tre e nel Quattrocento, questo mondo relativamente ricco". Così scrive Marco Cuaz nell'intervento centrale intitolato "Fra stati sabaudi e Regno d'Italia", per precisare poco dopo: "Quell'età dell'oro fin nella prima metà del Cinquecento, quando l'economia alpina occidentale, e in particolare quella valdostana legata alla preminenza della via delle Gallie, precipitò nell'isolamento e nella miseria"; oltre tutto la piccola età glaciale bloccò il transito sugli alti valichi frequentati in epoca medievale e così tagliò i tradizionali "ponti" gettati verso il Piemonte, la Savoia e il Vallese. Per oltre due secoli la società valdostana fu stretta da una dura economia di sussistenza e nelle comunità di montagna, povere e isolate, rette sul collettivismo pastorale e sull'individualismo agricolo, maturarono le premesse dell'identità regionale. La creazione dell'autonomo Ducato d'Aosta nel febbraio del 1536 in fondo non è altro che l'etichetta politica di un complesso processo di identificazione che si svilupperà in mezzo alle montagne, tra conflitti, pestilenze e carestie, in un crescente rapporto di amore-odio verso casa Savoia dispensatrice di promesse e avara di concessioni.
Ma occorre attendere l'Ottocento, e l'affermazione anche di qua delle Alpi della sensibilità romantica diffusa dai pensatori svizzeri e dai viaggiatori inglesi, perché la "valdostanità" venga recepita e trasmessa come un valore. Scrive ancora Cuaz: "Per secoli sui montanari aveva pesato uno stereotipo fortemente negativo: popoli 'rozzi e indolenti', 'superstiziosi e gozzuti', privi di 'alcuna industria', 'timidi e vili'. L'immagine del 'montanaro virtuoso' incominciò a circolare in Valle d'Aosta solo verso la metà dell'Ottocento e in particolare negli scritti dell'abbé Gorret. Il riconoscimento di una specificità montana della Valle d'Aosta, vissuta con orgoglio, emergeva proprio nel momento in cui scompariva l'antico stato sabaudo a cavallo delle Alpi e l'Italia guardava a Roma, al mare, alle pianure".
Ma di scelte turistiche e ambientali nel volume praticamente non si parla: il nodo più spinoso - lo sradicamento delle culture tradizionali soppiantate quasi ovunque dal terziario turistico e dall'oro bianco dello sci - è stato accantonato o rimosso. Tra le righe dell'intervento di Enrico Martial, "Un dopoguerra lungo cinquant'anni", si leggono tuttavia chiaramente le incertezze della politica territoriale regionale: "In Valgrisenghe, la diga di Beauregard quasi vuota, con quel muraglione altissimo e inutile, ha radicalmente mutato il paesaggio e la possibilità di sviluppo di quella valle: ed è solo uno dei segni di una industrializzazione rapida e vorticosa a cui la regione e la sua gente hanno concorso". Tuttavia oggi l'autonomia regionale, secondo Woolf, avrebbe finalmente raggiunto una prospettiva più matura e più costruttiva: "La consapevolezza di condividere una comune identità valdostana fa parte della mentalità di tutti gli abitanti. D'altra parte non si avverte più incompatibilità tra essere valdostano e italiano; ma solo un senso di differenza".
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