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Anno edizione: 2005
Anno edizione: 2013
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Lo scarso interesse odierno degli editori italiani per l'America Latina è tanto più vistoso se paragonato all'abbondanza di trenta e passa anni or sono, quando, nell'immaginario politico italiano, il continente era un grande soggetto collettivo impegnato nel riscatto di sé e del proprio passato e, per una parte della nostra opinione pubblica, sembrava incarnare un'altra Resistenza, capace di sfuggire alle logiche ferree delle potenze internazionali. Erano gli anni del non allineamento, della decolonizzazione e del Vietnam. Quella congiuntura italiana e internazionale produsse linguaggi e credenze collettive, tra cui l'idea che le opportunità umane di "quella" parte del mondo fossero state compromesse dall'azione storica (imperiale e coloniale) della parte anglo-europea. La credenza ebbe tanto successo da divenire luogo comune e il risultato fu la diffusione di un paradosso occulto: a un passato coloniale che aveva preteso di essere l'unico vettore di progresso, si oppose un presente democratico rispettoso delle culture "altre", che affermava di essere l'unico responsabile storico dei mali del resto del mondo. Si ribaltava il giudizio etico-politico rispetto al passato ma non il protagonista: l'Occidente prima "buono" e ora "cattivo", restava pur sempre il grande protagonista della storia, assegnando agli "altri" il ruolo di vittime passive, prive di autonomia e dunque di una vera storia.
Quest'opera di alta divulgazione si distacca da tutto ciò e ha il merito di presentare al lettore una riflessione sul passato messicano aggiornata agli orizzonti storiografici degli ultimi anni. L'autrice appartiene a quella generazione di intellettuali messicani che, a partire dalla strage di Tlatelolco del 1968, hanno iniziato a fare i conti con i miti del nazionalismo populista del regime. Con atteggiamento critico, il passato messicano è stato ricuperato in tutta la sua complessità, nel suo essere cioè nazionale e continentale allo stesso tempo, marcato da forti specificità ma anche rappresentativo dei processi più significativi che hanno costruito l'identità della maggior parte dei paesi di origine ispanica.
Tale prospettiva è rivendicata nella prefazione, dove l'accenno a Octavio Paz e al suo classico Il labirinto della solitudine non è letterario, ma storiografico. Paz è stato senza dubbio colui che più ha esplorato le radici e la complessità dell'identità messicana: la conquista e il meticciato culturale, la colonia e l'autonomia della nuova società, l'indipendenza e i suoi costi, la rivoluzione e i suoi miti irrisolti. Rivendicare Paz significa ricollegarsi idealmente a chi per primo, e forse con più coraggio, aveva sbattuto la porta al regime nel 1968. La sfida maggiore della revisione storiografica avviata dopo di lui fu superare le semplificazioni di un paese dal passato coloniale segnato dal cataclisma culturale e demografico della conquista spagnola, prima, e da ben tre guerre civili, dopo l'Indipendenza. Tanto più che proprio il regime postrivoluzionario aveva fatto dell'indigenismo di stato uno dei suoi pilastri ideologici. La riflessione storiografica di Chávez punta invece a valorizzare del passato messicano le grandi continuità epocali e identitarie: destruttura l'immagine, tanto diffusa, di un paese frammentato e di un continente segnato da grandi rovesci indotti dall'esterno, per lasciare il posto a processi storici forti e autonomi, capaci di interagire positivamente con le sfide poste dallo scenario internazionale. La capacità del segmento indigeno di ricostruirsi un proprio mondo dopo la conquista e la catastrofe demografica della seconda metà del XVI secolo è esemplare perché non è mera resistenza, come vorrebbe una vulgata cara al terzomondismo italiano, ma un'impresa di sopravvivenza collettiva che l'autrice ripercorre con un'attenzione particolare a quei processi di ridefinizione delle identità etniche, resi possibili anche grazie alle risorse portate dai vincitori spagnoli.
Per chi studia la storia del Messico può essere difficile riuscire a dar conto dello scenario sociale: il Messico, rispetto all'Europa, è connotato storicamente dalla forte autonomia dei poteri endogeni al territorio rispetto ai poteri più o meno centrali. Le gerarchie sociali sono sempre state, per così dire, "centrifughe", contrarie a delegare funzioni e risorse a poteri "esterni". Tra Otto e Novecento la sfida del nation state building fu quindi la nazionalizzazione del territorio, e la stessa Rivoluzione può essere inscritta in questa tensione irrisolta, che nemmeno l'adozione della forma federale di governo del 1824 riuscì ad assorbire completamente. Giustamente Chávez costruisce la seconda parte del suo lavoro, quello sul XX secolo, attorno al rapporto stato-nazione spezzato dalla Rivoluzione e ripreso in altre forme dopo il conflitto.
Probabilmente il Messico è il caso latinoamericano più studiato, ma rispetto alla letteratura esistente questo libro introduce uno strappo perché nel definirlo non ricorre quasi mai al termine "populismo". Il punto non è irrilevante: il concetto di "populismo", oltre a fare scuola, è anche portatore di una visione semplificatrice (il carisma, la mobilitazione politica, le modernizzazioni più o meno strutturali, i linguaggi ecc.) che mal si adatta alla complessità del processo di consolidamento del regime messicano. Soprattutto perché la capacità di mediazione politica in Messico è stata notevolmente più efficace e ampia che in altri casi, come il peronismo argentino o il varghismo brasiliano. E questo maggior successo è dipeso, suggerisce il libro, proprio dalla Rivoluzione, che ha sottratto alle vecchie classi dirigenti il dominio sul mondo rurale, permettendo una nazionalizzazione politica che altrove non si è data. Poco nelle analisi comparate si è insistito su questo rilevante aspetto: malgrado la retorica nazionalista né il peronismo né il varghismo sono mai stati veramente nazionali, nel senso che si sono guardati bene dall'esportare nelle campagne i modelli di mobilitazione politica delle città. In questi paesi i patti di regime furono principalmente verticali, riguardarono cioè le vecchie classi dirigenti (con il loro intoccabile mondo rurale) e i nuovi attori più o meno militari, e più o meno espressione dei ceti medi, mentre nel caso del Messico i patti furono orizzontali, tra le nuove élite e il resto dell'intera società. Così il regime postrivoluzionario riuscì a trasformarsi in stato perché poté estendere al mondo rurale le nuove pratiche di mobilitazione e inclusione, a cominciare dai sindacati, che negli altri paesi furono rigidamente confinate alle aree urbane.
Questa prospettiva è utile anche per comprendere la progressiva crisi del regime messicano e l'attuale fase di transizione democratica, cui l'autrice dedica la parte finale dell'opera. Il Messico si è trovato ad affrontare una doppia congiuntura difficile: il 1989, con il conseguente "disordine" internazionale, e l'esaurimento del modello di sviluppo del dopoguerra. La tendenza alla disarticolazione politica e sociale si è rivelata negli anni novanta più grave del previsto, facendo fallire i tentativi di inserire costruttivamente l'economia messicana nella globalizzazione.
Questo libro, in conclusione, ha una motivazione etico-politica che permette all'autrice di non perdersi nella vastità dei problemi affrontati e si colloca in un orizzonte estraneo alla retorica terzomondista di casa nostra. "Normalizza" infatti con pacatezza un passato non facile per affrontare con più sicurezza il prossimo futuro.
Antonio Annino
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