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Storia del post-modernismo. Cinque decenni di ironico. Ironico e critico in architettura - Charles Jencks - copertina
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Descrizione


In Storia del Post-modernismo, Charles Jencks offre una rassegna accessibile dell'architettura postmoderna a partire da quando è emersa agli inizi degli anni Sessanta fino a oggi, dalla demolizione del Pruitt-Igoe a St Louis (Missouri) ad una architettura iconica, figlia della digitalizzazione e del paradigma della complessità...
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Dettagli

2014
5 novembre 2014
320 p., ill. , Brossura
9788874901203

Voce della critica

  Da oltre trent'anni, fare i conti con il postmoderno richiede ampie cautele in ragione dell'indeterminatezza del termine che già Lyotard definiva pessimo. Per Charles Jencks, oggi, il problema non si pone più. Non tanto perché quel che aveva da chiarire sul postmoderno in architettura lo aveva già scritto, nel corso degli ultimi venticinque anni, in ben sette libri e numerosissimi saggi. Quanto perché il postmodernismo sigla per Jencks il solo movimento capace di ripercorrere la storia planetaria dell'architettura degli ultimi cinquant'anni e proiettarla in un futuro che l'autore auspica che sia ancora postmoderno. Il postmodernismo è la storia dell'architettura degli ultimi cinquant'anni. Se non la sola possibile, certamente la più estensiva rispetto ai campi attraversabili, quella capace di portare a sé il maggior numero di architetti e architetture, le trasformazioni dei più distanti spazi del pianeta, le più ampie geografie e culture del progetto. Il postmodernismo raccoglie tutto, e non vi è ragione, per Jencks, di mettersi oggi a distinguere e selezionare. Basta questo per capire quanto la storia del postmodernismo di Jencks sia una storia postmoderna. Ovvero, nel caso in cui volessimo (contro la volontà dello stesso autore) tornare a chiarire e specificare, una storia parziale ma aperta, superficiale, che lavora per immagini, che non incide e non pone domande, dalle argomentazioni deboli e le tinte forti, plurale, contraddittoria, capace di revocare continuamente il senso del proprio racconto, farne un enigma: l'enigma della storia che il lettore è chiamato a sciogliere senza imparare quasi nulla ma divertendosi quanto più possibile. E la storia di Jencks è in effetti divertente. Colorata, ricca (di dati e informazioni), contrappuntata da un apparato illustrativo (i bellissimi disegni di Madelon Vriesendorp) che moltiplica le metafore di un racconto che si dispiega come un'allegoria infinita. Attraverso cinque capitoli, molto intrecciati in realtà e poco consequenziali, sebbene l'esercizio retorico richieda un incipit tutto giocato contro (il moderno) e una chiusura tutta protesa verso un glorioso futuro postmoderno. L'apertura è in attacco. E il partigiano Jencks (come l'autore stesso non esita a dichiararsi) sferra colpi pesanti. Il modernismo in architettura è morto molte volte, a partire da molti anni fa. É morto con le tante demolizioni che ne hanno siglato la caduta, da Pruitt-Igoe al World Trade Center. Con l'emergenza di un nuovo modo di pensare la città e le sue trasformazioni, da The death and Life of Great American Cities di Jane Jacobs (1961) a Complexity and Contradiction di Robert Venturi (1966) e After the Planners diRobert Goodman (1971). Con le nuove traiettorie indicate dai migliori architetti tardo-moderni, Le Corbusier a Chandigarh e Kahn a Dacca, Kenzo Tange e Team X. Nel dubbio però che qualcuno possa ancora attendere una resurrezione, Jencks alza il tiro. L'architettura moderna è morta anche con il crollo dei regimi totalitari, Hitler, Mussolini, Franco e Stalin. È morta poi con il maggio francese nel 1968, con la guerra in Vietnam, con le proteste per i diritti civili e l'emergenza di una cultura di massa, di genere, con il multiculturalismo. È morta con il crollo del comunismo negli anni novanta. Con le catastrofi ambientali prodotte dalla modernizzazione, l'inquinamento dei grandi laghi, il disastro della BP nel Golfo del Messico, Chernobyl. Ciò che resta pare quasi niente. In realtà, scovati i cattivi e impietosamente fatti fuori tutti, il carro dei vincitori, presentato, in apertura del secondo capitolo, attraverso un grande schema indicante il nuovo albero evolutivo dell'architettura (postmoderna) dal 1960 al 2010, è incredibilmente ricco. Sui suoi rami sono stati fatti salire tutti i superstiti. Tutti gli architetti e le architetture della pubblicistica prodotta durante gli ultimi cinquant'anni, da Le Corbusier a Eisenman, da Koolhaas a Zumthor (passando ovviamente dai protagonisti indiscutibili del movimento nella sua epoca classica: Hollein, Moore, Graves, Krier, Bofill, Stirling, Venturi, Portoghesi, Rossi). Tutti i movimenti e le inclinazioni, radicalismi, contestualismi, eclettismi e decostruttivismi, architettura digitale, classica e vernacolare, sostenibile e autocostruita, organica ed ecologica. Tutti i luoghi del mondo, perché il movimento è, oltre che (come ampiamente dimostrato) aperto e plurale, globale. Nel nuovo mondo non regna la pace ma in nome della dissonanza, della discordanza, del collage e del métissage, del pluralismo e della complessità, delle teorie olistiche che sigillano l'ineluttabilità dello star tutti, bene o male, assieme, ogni cosa trova il suo posto. È un cercare la differenza per trovare la convergenza, come titola il secondo capitolo di questa storia. Una volta raggiunta, non resta che indicare qualche debole contrappunto che possa contrastare la nota posizione di Jameson e di tutti coloro che ancora ritengono il postmodernismo "la logica culturale del tardo-capitalismo". Quanto resta della storia di Jencks è in difesa. L'architettura postmoderna, con la sua attenzione critica al locale, all'espressività del particolare, al gioco e all'ironia con cui rielabora tradizioni, natura, mercato e comunicazione, non è l'architettura dell'età del consenso. Al contrario, nelle migliori esperienze, è tutta tesa a costruire piccole e grandi eterotopie. Luoghi altri, di alto impatto simbolico, che osservano la città con distacco e ironia, anche quando sembrano assecondarne a pieno le trasformazioni. La comparsa delle icone cosmiche, gli edifici-mondo firmati dalle maggiori star internazionali dell'architettura (cui Jencks ha dedicato l'ultima fase della sua ricerca, forse la meno convincente) non sono che il coronamento e l'apice di questa storia ineluttabile. Come cogliere altrimenti, e includere in una narrazione, i grovigli monumentali di Gehry, le meteore di Koolhaas, le contorsioni di Coop Himmelb(l)au, la torre-proiettile di Foster, il nido di Herzog de Meuron, sogni e incubi di Fuksas, boschi e giardini verticali? Per Jencks sono facili, e necessarie, acquisizioni. A loro il compito, problematico, di mantenere promesse e speranze di un movimento che è esploso cinquant'anni fa (e forse, ma Jencks non sarebbe d'accordo, come espansione ed esplosione di ciò che gli stava alle spalle), ma la cui natura è trans-storica. Vogliamo non includervi gli ibridi indo-greci del terzo secolo avanti Cristo? O le tante epoche in cui tradizioni prima marginalizzate sono tornate a esprimere promiscui potenziali di enorme creatività? In chiusura di una storia di questo tipo non c'è da stupirsi che cinquant'anni a Jencks vadano stretti e che l'albero evolutivo tracciato abbia per lui radici interminabili e iperbolici rizomi. Qualcosa che è impossibile da raccontare. Se non così: dall'interno di una condizione trasognante che Jonathan Lethem, altro ironico cronista del mezzo secolo qui narrato, chiamava "estasi dell'influenza".   Angelo Sampieri  

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