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Odissea, catastrofe e apocalisse sono parole del nostro linguaggio quotidiano, che hanno un denominatore comune: implicano tutte l'idea di uno sviluppo inquieto verso un futuro segnato. Che si trattasse all'origine del nome legato alle vicende dell'eroe omerico, o di un termine della drammaturgia greca allusivo di un sovvertimento finale, o ancora di una parola di ascendenza evangelica destinata a indicare la fine del mondo e del tempo, in ciascuna di esse persiste soprattutto l'idea di uno svolgimento contrastato e di un fatale destino.Ma quelle parole non hanno avuto sempre lo stesso valore. Il loro significato attuale ha origini molto recenti e si è venuto precisando a mano a mano che si è ampliato a dimensioni planetarie lo scenario della sofferenza e della paura. Fino a qualche generazione addietro, l'angoscia e il timore di un uomo o di una donna avevano un orizzonte familiare: vicino, caldo, consueto. Nel nostro quotidiano Occidente, invece, i mezzi di comunicazione offrono a ognuno, con l'inesorabilità del tempo reale, lo spettacolo di ingiustizie, violenze, sofferenze e atrocità di ogni tipo; laddove la morte personale, variamente esorcizzata, è rimossa dal nostro immaginario quotidiano. Sono le sventure collettive, le atrocità di fatti tragici, e tanto più evocati quanto più tragicamente ridondanti, a riempire le nostre vite: l'odissea della Iugoslavia; la catastrofe del comunismo; l'apocalisse di Cernobyl.Di queste tre parole il libro di Augusto Placanica rivisita la storia nel tempo; anzi la preistoria, rispetto a un oggi così lontano dalle origini. Il loro antico significato letterale, la loro specifica valenza, vengono descritti nel corso di una vicenda bimillenaria che solo di recente ha conosciuto l'enfasi della metafora, che solo negli ultimi decenni si è fatta specchio del nostro collettivo turbamento.
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