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recensione di Garin, E., L'Indice 1995, n. 9
Quando, sulla fine del gennaio '94, mi trovai a discorrere a Roma, nella sede della casa editrice Laterza, di questa nuova "Storia della filosofia" diretta da Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano, dissi subito tutto il mio interesse per l'impostazione dell'opera e il mio apprezzamento per alcune delle idee affermate nella prefazione generale. Della loro validità non solo ero da tempo convinto, ma a esse mi ero ispirato nel mio lavoro. La filosofia, infatti, è venuta profondamente trasformandosi nel tempo e cambiando oggetto e metodi, mutando gli scopi, la formulazione dei problemi, i rapporti con le altre discipline. Di questo suo trasformarsi è venuta acquistando faticosamente coscienza, mentre non poteva non risentirne la sua storiografia (che è in realtà la sua stessa coscienza), sempre più consapevole della necessità di connettere le dottrine via via considerate filosofiche con le situazioni, individuandone la genesi e seguendone gli sviluppi, cogliendone i rapporti con la varia tematica di un tempo.
Di qui il sempre più argomentato rifiuto della storia della filosofia come sviluppo progressivo di una disciplina - la filosofia, appunto - omogenea nel tempo, sempre tesa a delineare visioni d'insieme motivate e organizzate, risposte approfondite a eterni massimi problemi. Di qui il rifiuto di un cammino lineare 'de peritate in veritatem', come della necessità di connettere univocamente la riflessione filosofica solo a talune esperienze o discipline in qualsiasi modo privilegiate. Di qui anche l'appello spregiudicato a fonti non convenzionali le più diverse: un trattato scientifico, un'opera d'arte, una tecnica, un poema, un romanzo, che a un certo momento vengono fatti rientrare anch'essi nella filosofia. Di qui, non solo la spregiudicata demolizione dei "sistemi", ma la sfiducia nella compattezza della personalità di molti pensatori, l'attenzione ai "salti", alle crisi, al frequente drammatico contrasto fra momenti diversi della vita dei filosofi, e, a volte nello stesso momento, fra forme di condotta in conflitto e conflitti non risulti.
Chi, per età, aveva cominciato a lavorare in Italia in mezzo al contrasto aperto fra "positivisti" in crisi e "idealisti" in conflitto, per sperimentare successivamente i riflessi non felici di una scolastica presunta "marxista", non poteva non provare sazietà della consuetudine di forzare i testi, di ignorare i documenti, di trascurare i dati di fatto, di procedere per schemi precostituiti, con un'unica preoccupazione: separare nel filosofo del passato "ciò che è vivo da ciò che è morto", invece di mettere a fuoco la genesi delle antiche domande e del loro mutare, e il perché delle risposte. Memore del fastidio della etichetta di "filologo" affibbiatami per decenni, ho guardato subito con molta simpatia al progetto di questa nuova "Storia della filosofia", pur consapevole, non solo delle difficoltà di un'impresa del genere, ma anche della facilità delle critiche possibili e dell'insidia costante di "forzare" polemicamente giuste impostazioni. Ricordo anzi di avere allora pensato che proprio questo secondo volume, e cioè "Il Medioevo", sarebbe stato particolarmente insidioso per l'ambiguo rapporto della riflessione filosofica con alcune grandi religioni (ebraica, cristiana, musulmana), con le loro chiese e il loro magistero, con i nuovi poteri politici, con gli istituti dell'insegnamento e della ricerca, e con tutti i problemi posti dalla presenza operante in Europa (per esempio in Sicilia e in Spagna) di pensatori arabi ed ebrei. D'altra parte critiche e dissensi, che non mancheranno, mostreranno l'attualità dell'opera.
I ventiquattro nutriti capitoli del volume, affidati a sedici autori diversi anche per orientamenti di fondo, completati da una bibliografia e da schede bibliografiche, intrecciano un'esposizione delle dottrine spesso originalmente impostata alla presentazione degli istituti e dei metodi di insegnamento e di ricerca, al formarsi di una "nuova biblioteca" con l'intenso lavoro di traduzioni di testi e commenti critici dal greco, dall'arabo e dall'ebraico, e quindi da grandi culture diverse che si incontrano e si scontrano sul terreno delle credenze religiose e su quello della ricerca razionale. La ripresa di precise indagini scientifiche, il riemergere in traduzioni latine di testi fondamentali come l'"Almagesto" di Tolomeo, sono felicemente sottolineati in connessione con le vicende delle discussioni filosofiche in senso più tradizionale. Non a caso la fioritura culturale - la "rinascita" - del secolo XII è messa a fuoco come 'mondana sapientia', come 'philosophia mundi', caratterizzata, per un verso, da nuove traduzioni di opere teoriche greche, e per un altro dall'ingresso di opere astronomiche e mediche orientali, non senza un sostanzioso condimento di tematiche ermetiche, magiche e astrologiche.
I capitoli - questi capitoli - affidati a studiosi particolarmente competenti scorrono presentando i processi teorici di una nuova organizzazione sistematica del sapere, per tappe connesse alla strutturazione del potere, dal monastero alla corte, cominciando dalle invasioni longobarde per sboccare alle "rinascite" medievali, dalla carolingia a quella del XII secolo, così ampia e articolata, e così decisiva. E poi, finalmente, la complessità tanto ricca e piena di contrasti del mondo trecentesco. Solo che, laddove anche la più attenta storiografia ci ha abituato soprattutto a percorrere gallerie di ritratti affollate di pensatori "grandi" (e meno grandi), secondo definiti orientamenti di pensiero, in questo libro, pur emergendo, come era fatale, taluni (pochi) grandi nomi (a cui sono dedicati capitoli interi), l'attenzione è richiamata soprattutto su strutture organizzative, su corti e monasteri, su centri di potere, su strumenti di lavoro, su libri e biblioteche, sulla circolazione dei codici e le ondate di traduzioni, e tutto questo in genere in felice connessione con precise e molteplici determinazioni teoriche.
Così, al posto di una galleria di ritratti di grandi filosofi, si trova un affresco mosso e affollato, in un complesso di illuminanti esplorazioni sui procedimenti del sapere e sulla lenta e tormentata costruzione della scienza, alla convergenza fra rilettura di dimenticati libri degli antichi e tentativi di decifrazione del gran libro della natura e dei suoi linguaggi (logici e matematici). Non a caso, a un certo punto, viene riproposta, dalla prefazione alla versione dell'Almagesto compiuta in Sicilia nel XII secolo (e pubblicata già nel 1924 da quel grande studioso del medioevo che fu Charles Homer Haskins), la dura condanna di coloro che "denunciano come inutile e profano quello che ignorano" e che "disprezzano la scienza mondana (mondana sapienza)", considerando follia lo studio degli astri. Alle meditazioni nei chiostri e alle riflessioni edificanti sulle sacre pagine si alternano, sempre più fitte e più lunghe, le visite alle nuove biblioteche, in cui si affollano sempre di più, con le nuove traduzioni dei greci antichi, quelle degli scienziati e, in genere, dei pensatori arabi, persiani ed ebrei.
Si tratta di un settore fondamentale per la storia del pensiero medievale: un settore in cui un'intensa e sistematica esplorazione ha recato, fra Ottocento e Novecento, contributi decisivi. Così, dopo Scholem, e magari su posizioni in parte diverse dalle sue, sarà difficile non tener conto della mistica ebraica, e di sue possibili risonanze nel mondo latino (per esempio in Germania, con El'azar da Worms) anche prima del Quattrocento. Come bisognerà fare in qualche modo anche il nome di Ibn Khaldun, questa specie di straordinario Vico africano, i cui "Prolegomeni" andranno menzionati almeno come un intelligente contrasto con testi contemporanei di scolastici latini.
D'altra parte proprio lo studio della "biblioteca" non potrà limitarsi a sottolineare, dopo il ricordo delle parziali modeste versioni arabo-latine di Archimede del secolo XII, la versione latina completa delle sue opere che nel 1269 farà Guglielmo di Moerbeke, consegnandola a un codice vaticano. L'indagine sistematica della grande diffusione e del peso della versione arabo-latina di fronte alla mancanza di circolazione (almeno prima del Quattrocento) della versione di Guglielmo ha permesso a Marshall Clagett di scrivere nei volumi del suo "Archimedes in the Middle Ages" un capitolo di storia della scienza e della filosofia nel medioevo che non si può ignorare.
Con piena ragione, del resto, gli autori di questo volume ricordano le traduzioni di opere filosofiche e scientifiche come "fattori di trasformazione della filosofia, della scienza e della tecnica, anzi della concezione stessa del sapere". E non si insisterà mai abbastanza su quella trasformazione della concezione stessa del sapere.
Due densi capitoli di specialisti (Gilbert Dahan e Hans Daiber), dedicati appunto al mondo islamico ed ebraico, ne presentano sinteticamente il pensiero con l'attenzione tesa all'utilizzazione che ne venne fatta dai pensatori occidentali del mondo cristiano: "alla luce della Scolastica latina", come viene dichiarato. Non possono quindi non rimanerne fuori anche autori e aspetti di rilievo, che talora vivevano in Europa e che spesso si inseriscono in altri momenti, o per canali non ancora identificati, ma di cui l'eco, a volte, è individuabile.
Comunque l'intreccio fecondo fra nuova apertura a situazioni precise di indagini in movimento e galleria delle grandi figure consacrate della scolastica (ma i capitoli dedicati a un "nome" non sono poi molti) continua fino alla conclusione del volume, a tutto vantaggio delle questioni specifiche, dei "fatti" concreti e specialmente delle ricerche rinnovatrici. Dallo strutturarsi delle scuole al trasformarsi delle discipline e dell'"enciclopedia", l'interesse e il valore della trattazione vengono crescendo, mentre qui si collocano anche i tratti più sollecitanti di figure di rilievo crescente (benché non riconosciute degne di un capitolo a sé). Per non dire di figure singolari come un Lullo, il cui significato nel tempo forse non è ancora tutto chiarito, o di pensatori sempre inquieti come, per fare un nome solo, Thomas Bradwardine, diviso fra la problematica del Merton College e l'ermetismo del "De causa Dei", ma che se anche non fu, come voleva Annelise Maier, 'ein Vorlaüfer Galilei's, fu senza dubbio un ben singolare filosofo.
Anche sulla bibliografia, e soprattutto sulle schede biografiche, sarebbe necessario un discorso a sé per il nesso col pensiero che può avere la vicenda di una vita. In realtà un libro come questo, che è un libro importante, e che vuole avviare un modo nuovo di fare storia della filosofia, dimostra la sua efficacia e il suo significato anche con le discussioni che suscita e che, del resto, voleva provocare.
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