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recensione di Koch, L., L'Indice 1991, n. 7
C'è un curioso epigramma, sul basamento di una 'kore' arcaica del VI secolo a.C., la più antica in assoluto ad essere accompagnata da un'iscrizione. L'epigramma proclama che la ragazza, morta prima delle nozze, "rimarrà per sempre la testimone del 'kleos' di suo padre". Dato che non ha fatto a tempo ad avere un'esistenza propria, la ragazza trova il significato pubblico della sua breve vita nel diventare, letteralmente, un messaggio: la dichiarazione del 'kleos', cioè della "fama", di chi l'ha messa al mondo.
Da questa oscura iscrizione prende le mosse il libro sulla lettura di Jesper Svenbro, uscito in Francia tre anni fa. Nonostante il titolo italiano, non si tratta di una storia della lettura ma, più problematicamente, di una sua antropologia, una "microsociologia", una filosofia, una poetica. Storiche, certo, ma anche assai sensibili a una riflessione teorica e generale sulla comunicazione scritta e quindi sulla letteratura. Sul suo funzionamento, sui suoi scopi, sulla sua efficacia: giudicati dalla parte non di chi la letteratura la fa, ma di chi la riceve; o meglio, come qui si dimostra, la subisce e la serve. La scrittura usa il lettore come il padre della ragazza morta prima delle nozze aveva usato lei per rendere se stesso immortale. O come l'amante adulto usa l'adolescente di cui è invaghito allo stesso tempo come oggetto erotico e come discepolo: prolungamento e destinatario del proprio pensiero.
Il nuovo libro continua dunque l'indagine sulla natura della poesia iniziata, quindici anni fa, con il brillante "La parola e il marmo" sulla poetica prima di Platone; continuata con altri studi sulle origini sacrificali della poetica greca e, recentissimamente, sul carattere e sulle origini della lirica: che la tradizione greca riconduce ambiguamente, mediante i miti sull'invenzione della lira, ad Apollo e a Ermes. Anche come poeta in proprio, Svenbro mette la riflessione sulla poesia al centro dell'invenzione. Una poesia pensata sempre in termini fisici e materiali, e sempre per allegorie. La lingua che diventa poesia ripete il gioco delle canne e dei pedali dell'organo o la metamorfosi della crisalide in farfalla.
La stessa fisicità, drammatica e grandiosa, la stessa attenzione allegorica percorrono questo libro. Della poesia, nella cultura greca, Svenbro aveva già segnalato le impressionanti metafore corporali e sonore: un ventre vibrante, un animale scannato, pronto a essere offerto agli dèi, una tartaruga uccisa e svuotata che, combinata in forma di lira con due canne e sette corde di intestini d'agnello, produce suoni che riassumono l'esperienza dei tre regni naturali. Vista dal lato della ricezione, e cioè del distacco del prodotto poetico dal suo autore per andarsene "in giro per il mondo a destra e a manca ", come dice il "Fedro" la corporeità della poesia si manifesta soprattutto in termini di riproduzione e di sesso.
Accostando l'epigramma di Phrasikleia - la 'kore' morta prima delle nozze - a una riflessione sulla pratica onomastica greca, Svenbro porta per esempio alla luce una concezione del figlio come una sorta di iscrizione 'ante litteram': un messaggio fisico e vivente che serva a soddisfare la sete di immortalità del padre, propagando appunto la sua "fama ". Diventa così possibile una temeraria e affascinante lettura di una delle liriche più famose e più imitate di Saffo (la cosiddetta "Ode della gelosia") come un congedo del poeta orale dalla poesia sua figlia, al momento in cui le strofe, fatte per essere recitate a un pubblico con cui il poeta è emotivamente e intellettualmente legato, vengono messe per scritto: e si avviano a un'avventura incontrollabile per il mondo, pronte a "parlare e a sorridere dolcemente" al primo sconosciuto che incontrano. Che cosa resta al poeta che le ha composte, ma che non le possiede più, se non scomparire per sempre, in un'agonia raccontata con tragica concretezza per tre strofe, e conclusasi sull'orlo stesso della morte, nell'ultimo verso?
Servendosi con estrema finezza tanto della grande letteratura (Omero, il teatro, i lirici, e naturalmente il "Fedro"), quanto delle iscrizioni artigiane a carattere funerario e votivo (gli "oggetti parlanti", le steli che si appropriano della voce del passante perché riviva il 'kleos' del defunto), Svenbro ritrova, nelle raffigurazioni del potere che chi scrive esercita sul corpo e sulla mente di chi legge, le metafore e i modelli delle più importanti relazioni fra persone della Grecia antica: la filiazione, il matrimonio, la pedagogia pederastica. In termini di trasmissione biologica, corporale, sessuale di messaggi è immaginato e regolato anche il potere delle istituzioni pubbliche (la legge, il teatro).
Fra chi scrive e chi legge esiste dunque un rapporto a senso unico di dominio e di possesso, avvertito con eccezionale drammaticità nella lunga età di passaggio fra oralità e scrittura. Non lo dicono forse abbastanza chiaramente i graffiti ripetuti ancora ieri sui muri delle scuole, e che citano, curiosamente, alla lettera il testo di una 'kylix' antica del VI secolo a.C., che "chi legge è inculato"? Il lettore si vede violentato, usato, asservito, perché un testo scritto da qualcuno che è forse polvere da lungo tempo riviva attraverso la sua voce; perché possano ripetersi e propagarsi i discorsi pensati da quella polvere ormai volata lontana nel vento. Il paradigma del lettore oggetto e strumento rimane latente, e contraddittorio nel corso dell'intera cultura occidentale. Non solo, naturalmente, nelle epoche in cui la scrittura è stretto monopolio dei "chierici", ma anche nelle grandi età pedagogiche e liberali: l'illuminismo, il positivismo. Riemerge arrogante nel disprezzo dei romantici per il "volgo" dei loro lettori. Si rovescia, nel Novecento, con le poetiche "aperte" delle avanguardie: che incaricano, all'opposto, il lettore di dare senso e compiutezza sempre diversi a testi volutamente mobili e frammentari. Culmina nelle ermeneutiche letterarie a noi più vicine, interamente orientate sulla ricezione e inventrici di personaggi capaci di compensare un'umiliazione millenaria. I Superlettori, appunto, gli Arcilettori, i Lettori nella Favola.
Ma soltanto Socrate, nel grande discorso del "Fedro" che propone "un amore che non conosca vincitori n‚ vinti, padroni o schiavi, dominatori e sottoposti ", ha saputo proporre anche una critica, erotica e simmetrica, della lettura e della scrittura. Una nuova parità emotiva e intellettuale dovrà legare poeta e pubblico, scrittore e lettore: accomunati in una stessa, dialettica ricerca della verità e capaci finalmente, per amore di quella ricerca, di rinunciare a una lunga storia di sopraffazione e di sfruttamento.
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