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CANOSA, ROMANO, Storia della magistratura in Italia da piazza Fontana a Mani pulite
AA.VV., Governo dei giudici. La magistratura tra diritto e politica
recensione di Tranfaglia, N., L'Indice 1996, n. 7
Se si ha voglia di uscire dai luoghi comuni e dalle troppe frasi fatte che campeggiano sui giornali e sugli schermi televisivi da alcuni anni a proposito di quel che sta succedendo nella giustizia italiana e nei suoi rapporti con la politica, vale la pena leggere con una certa attenzione il libro di Romano Canosa e quello sul "governo dei giudici", diversi da molti punti di vista ma simili, e addirittura complementari, nel cogliere il processo iniziato negli anni settanta e tuttora in corso nel nostro paese, che si può con qualche approssimazione definire come l'arrivo sulla scena politica dei magistrati (meglio sarebbe dire di una parte di essi) come attori, per non dire protagonisti.
"Di origine burocratica - ricorda Canosa nel suo saggio -, sottoposta sin dalle origini a controlli formali e specialmente informali da parte della classe politica, la magistratura italiana vide ulteriormente peggiorata la sua condizione sotto il fascismo, non tanto perché questo sia stato nei suoi confronti più pervasivo del regime precedente, quanto per l'atmosfera generale del Paese, che non tollerava interventi che potessero dispiacere al partito unico e al suo capo supremo". Ma, quel che è peggio, ricorda ancora Canosa, a costituzione approvata e repubblica vigente "restarono in vigore i codici del regime, restò in vigore la legge sull'ordinamento giudiziario, soprattutto restarono ad amministrare la giustizia gli stessi giudici che l'avevano amministrata nel Ventennio, i quali, personalmente onesti e probabilmente tutt'altro che fascisti, raramente riuscirono a sottrarsi a un approccio ai casi concreti alquanto ossequioso rispetto alle istanze che il potere politico o altri poteri forti da tempo immemorabile erano abituati a rivolgere loro".
Le cose, insomma, cominciarono a cambiare quando la generazione dei giudici che era cresciuta durante il regime o vi aveva svolto una parte della sua carriera dovette cedere a poco a poco il passo alle generazioni formatesi nell'Italia dell'ultimo centrismo, un periodo fortemente instabile, o addirittura del primo centro-sinistra. Ma il mutamento divenne ancora più forte negli anni settanta grazie alla concomitanza tra lo scatenarsi della crisi economica e politica seguita al fallimento del centro-sinistra e il manifestarsi prima della "strategia della tensione", poi del terrorismo rosso.
Fu allora che l'espressione "governo dei giudici" apparve anche sui mass media e si ebbe modo di constatare, da una parte, l'incertezza e i contrasti all'interno della classe politica di governo, divisa evidentemente tra una componente autoritaria, disponibile all'eversione, e una componente democratica contraria a quella medesima eversione, e, dall'altra parte, il rigore e la determinazione con cui i giudici intervennero nel tentativo di applicare i precetti costituzionali, a partire dall'eguaglianza dei cittadini, ma di tutti, di fronte alla legge.
C'è, a questo proposito, nel volume collettivo curato da Bruti Liberati e altri, la lunga testimonianza di Giancarlo Caselli sulla "cultura della giurisdizione", che colloca proprio allora la nascita di quello che è stato definito il "protagonismo" dei giudici. Allora, scrive Caselli, "i magistrati hanno scoperto, verificandola in concreto, l'importanza di non rimanere separati dalla società civile". Mentre hanno contribuito al ridimensionamento dell'"illusione repressiva", constatando e facendo constatare che il terrorismo, in quanto intrecciato con il modo stesso di svilupparsi della nostra società, esigeva risposte non solo tecniche ma anche politiche".
Di qui, secondo le riflessioni del procuratore della repubblica di Palermo, l'esigenza innovatrice di creare i pool di magistrati, di fissare incontri a livello regionale e nazionale: modi di operare, è quasi superfluo ricordarlo, che saranno ripresi e allargati fruttuosamente prima nella lotta alla mafia condotta a Palermo negli anni ottanta da Chinnici e Caponnetto grazie a magistrati come Falcone e Borsellino (per citare solo loro) e negli anni novanta dal procuratore Borrelli a Milano, in quell'inchiesta sulla corruzione pubblica che andrà sotto il nome simbolico di "Mani pulite" e che è tuttora aperta.
Esiste dunque un filo rosso (è difficile non essere d'accordo con Caselli) che collega l'avvio delle inchieste sulla "strategia della tensione", vale a dire sui rapporti tra il terrorismo nero e apparati dello Stato, e l'ulteriore evoluzione e sviluppo della presenza politica dei giudici all'interno della crisi politica repubblicana. Si è parlato per molti anni di questo ruolo come di una "supplenza" che i politici hanno tacitamente affidato alla magistratura, non essendo loro in condizione di affrontare i problemi, o che quest'ultima si è attribuita autonomamente, di fronte alle incertezze dei politici in tutt'altre faccende affacendati.
Ma ora ci si chiede - ed è il cuore dell'interessante raccolta di saggi pubblicata da Feltrinelli - se un simile concetto, a distanza di oltre vent'anni, resti utile dal punto di vista interpretativo, se serva ancora a capire il ruolo politico sempre più forte che i giudici hanno esercitato di fronte al declino del nostro sistema politico.
Nel saggio "Magistratura e politica in Italia", che apre il volume feltrinelliano, Stefano Rodotà prende atto del ruolo mutato, e più importante, dei giudici in una società complessa come la nostra in cui si avvertono i limiti della politica, per quanto rigenerata (speranza tuttora esistente), e invita tutti a un ripensamento della giurisdizione.
"Un ripensamento - aggiunge Rodotà - che deve essere globale: uno dei veri guasti della situazione italiana consiste nel fatto che l'attenzione è monopolizzata dalla giustizia penale trascurandosi le condizioni della giustizia civile e amministrativa... All'interno della giustizia penale si assiste poi a un'altra, pericolosa riduzione, quella che fa concentrare l'attenzione sulla fase delle indagini, ritenendo secondario il processo, che rappresenta invece un momento essenziale di trasparenza e di controllo pubblico sull'attività svolta dagli stessi magistrati".
Indicazioni queste ultime che ci paiono serie e opportune ma di cui, sui giornali, sentiamo assai poco parlare.
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