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Anno edizione: 1994
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Un libro estremamente interessante. Ripercorrendo la storia della medicina nei secoli scorsi ci spiega - senza accennarvi quasi mai - i problemi dell'attuale, anche se rimangono molti dubbi (soprattutto sulla strada da seguire per risolverli). Per il lettore comune (se non per Bignami che scrive la recensione dell'Indice), le grandi questioni della medicina odierna risultano illuminate (ed unificate), anche se forse in modo piuttosto indistinto per via della difficoltà trovata a tenere il filo del discorso di questo libro densissimo (anche se chiaro) - ma questo è colpa più che altro delle negligenza del lettore poco attento -. Persino ER acquisirà un significato più profondo. Per non parlare poi delle peripezie dell'omeopatia...
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di Bignami, G., L'Indice 1987, n.10
Già nella prima metà del '500 il grande Paracelso aveva sperimentato la reazione tra l'acido solforico e l'alcool, producendo "acqua bianca", cioè dietil-etere o etere tout court. Raccomandando l'acqua bianca nelle malattie dolorose, Paracelso mostrava di aver capito le sue proprietà farmacologiche. Ma occorreranno oltre tre secoli perché si incominci a usare l'etere negli interventi chirurgici. La rivoluzione è particolarmente drammatica: non solo perché possono cessare i barbari supplizi inflitti da sempre ai pazienti; ma anche perché la tecnica chirurgica, per poter progredire sino agli attuali livelli, ha bisogno di cavie umane e di animali che dormono, anziché contorcersi nella stretta di nerboruti inservienti.
Il caso del lungo ritardo nell'applicazione dell'etere come anestetico è un caso di spiegazione relativamente agevole: per lo meno rispetto ai molti altri "blocchi ideologici" della medicina attraverso i secoli, che Giorgio Cosmacini analizza nel suo libro più recente. Lo scopo dell'opera è di amalgamare tre livelli di analisi che sono spesso artificialmente separati. Il primo è quello delle grandi malattie, delle massicce pandemie di peste del '300 sino ai flagelli dei tempi più recenti - malaria, pellagra, tubercolosi. Il secondo è quello degli interventi medici, sanitari e sociali effettuati nei successivi periodi e nelle diverse aree geografiche, volta per volta precorrendo o viceversa ignorando il dato scientifico. (Purtroppo non basterà qui lo spazio per soffermarsi su questa parte dell'analisi, quanto mai efficace e istruttiva e di agevole comprensione). Il terzo e più arduo livello è quello del tortuoso evolversi delle conoscenze mediche e biologiche e dei relativi modelli teorici, compresi i continui incontri-scontri con gli schemi socio-economici e ideologici dominanti.
È sin troppo noto il disaccordo che esiste tra gli addetti ai lavori nella interpretazione di tale o tal altro fenomeno di rilevante portata medico-sanitaria. Secondo Thomas McKeown, per esempio, il miglioramento dello stato di salute e l'aumento numerico delle popolazioni precedono nei paesi dell'Europa occidentale le trasformazioni igieniche avviate nel tardo '700; quindi essi sarebbero da ascrivere soprattutto alle modifiche dei regimi alimentari ("L'aumento della popolazione nell'era moderna", Feltrinelli, Milano 1979). Ma la questione resta altamente controversa, tanto da meritare di recente un problematico editoriale in una prestigiosa rivista per medici pratici ("British Medical Journal", 27 giugno 1987, p. 1631).
Altre analisi rimettono in discussione i fattori che hanno prodotto prima la diffusione, poi il contenimento di malattie sociali importanti. Nel caso della tubercolosi, per esempio, si tende a invocare la elevata sensibilità di popolazioni precedentemente indenni quando si creano le condizioni ideali per il contagio (in particolare con il trapianto dalle campagne agli slums urbani), e poi il graduale sviluppo di una qualche forma di resistenza. Oggi c'è chi ribalta il modello, postulando una immunità delle popolazioni indenni - ma con dimostrati casi sporadici - dovuta a una spontanea vaccinazione con microrganismi poco virulenti, sinché fattori esterni, sociali ed economici, non determinano la rottura degli equilibri ecologici, quindi una sensibilizzazione di massa (G.A. Clark e coll., "Current Anthropology", v. 28, p. 45, 1987).
Perché questi esempi "fuori sacco"? Per dire che nel libro di Cosmacini, scrupolosamente documentato, il problema non è tanto quello della maggiore o minore validità delle singole spiegazioni offerte, quanto quello della diversa accessibilità dei tre livelli di analisi sopra citati. Tra l'altro, laddove parla delle grandi malattie l'autore va spesso a caccia dell'attenzione del lettore laico, fraseggiando ad effetto. (La peste, per esempio, diventa a pagina 6 "soggetto omicida, primattore sulla scena della demografia storica". Poco più oltre, alle pagine 38-39, si incontra una cabalistica "simmetria delle date: ventitré anni prima del 1400 è nata la quarantena, ventitré anni dopo il 1400 nasce un'altra fondamentale istituzione, il lazzaretto... in un'isola della laguna... un'isola per meglio isolare"; e a pagina 41, l'ironia sulle "montagne di scienza che partoriscono un ridiculus mus, ma il topo della peste non fa affatto ridere..."). Quindi il rischio, per dirla con Rabelais, è che più di un lettore non rosicchi a fondo le gustose pareti di quest'osso sino a succhiarne il sostantifico midollo, scansando le ostiche analisi sull'evoluzione di scienza e ideologia.
Sull'importanza e attualità di tali analisi non si può insistere abbastanza. Perché il contagionismo di Fracastoro, potenziale precursore della moderna infettologia e gravido di implicazioni pratiche, naufraga negli umori delle dottrine galeniche? Perché il tentativo di rianimare la scienza medica con il metodo galileiano si arena nelle secche dei modelli solidisti? Perché le nuove concezioni in patologia che emergono dal faticoso lavoro di Morgagni non possono essere accolte da una medicina ancorata a modelli ubiquitari e sistemici? Passo dopo passo, Cosmacini ci mostra la continuità tra i blocchi ideologici di epoche oramai remote e quelli che hanno condizionato gli sviluppi più recenti, sino alle nobiltà e alle miserie della medicina moderna. Ma vediamo alcune di queste contraddizioni.
Nei primi decenni dell'800 comincia il grave ritardo scientifico dell'Italia, rispetto alle grandi trasformazioni avviate in Francia, in Germania e in Inghilterra. Dapprima prevale la retorica pseudoprogressista (o addirittura platealmente nazionalista) dei sostenitori di modelli energetici di ispirazione newtoniana (Rasori e poi Tommasini). Poi si succederanno sulla scena molti e molti altri tromboni, anch'essi progressisti a parole e oscurantisti nella sostanza. Ora si riafferma il primato dell'empiria clinica, cioè dell'intuito e del potere incontrastato del barone di turno contro la dialettica dei modelli scientifici (Baccelli, Cardarelli). Ora si pasticcia il modello darwiniano in nome di una rivoluzione laica e socialista (Lombroso). Ora si mistifica la pressante esigenza di un innesto antropologico nel tronco della medicina (De Giovanni). Ora si propongono compromessi creazionisti alle controparti oscurantiste (Grassi). E chi più ne ha più ne metta.
Qui si conferma una certa difficoltà di Cosmacini a spingere l'analisi sino alle necessarie conclusioni; il che era già evidente nel suo "Gemelli" (Rizzoli, Milano 1985) dove, dopo trecento pagine di documentate infamie scientifiche, culturali e politiche, il prete pasticcione si era visto riconoscere un ruolo sostanzialmente positivo. Analogamente diventa qui positivo il ruolo di Rasori e Tommasini, solo perché la caduta delle loro teorie spalancherà la strada agli estremismi riduzionistici della nuova scienza medica; o quello di Lombroso e di De Giovanni, alle cui grossolane e arbitrarie antropometrie (non antropologie!) si ispireranno il codice Rocco e le "teorie" fasciste della razza (vedi l'opera di illustri rampolli della "scuola" di De Giovanni, come Pende).
Ma come può Cosmacini credere che un modello scientifico vistosamente sballato o comunque superato possa riabilitarsi solo perché qualcuno se ne è servito per combattere altri errori teorici o pratici? Prima o poi, alla resa dei conti, il bilancio va in rosso, e di parecchio. Si è visto con la caduta dei modelli frenologici di Gall e Spurzheim, utilizzati dai sostenitori del trattamento morale degli ammalati mentali: l'assalto dell'estremismo organicista, sostenitore di una linea manicomiale dura, sarà tanto più efficace quanto più la linea tendenzialmente giusta pretendeva di sostenersi su un falso scientifico. Più vicino ai giorni nostri, l'internazionalizzazione della scienza biomedica toglierà spazio a operazioni come quelle di Rasori, Tommasini, Baccelli, Cardarelli, De Giovanni, Lombroso, Grassi, e dei loro successori più recenti. Ma essendo stati per lungo tempo i loro modelli il prodotto nazionale più genuino, la scienza biomedica italiana - a differenza per esempio di quella francese - deve ora di necessità vivere una fase vistosamente coloniale.
Né spiega Cosmacini come e perché l'apparente successo dei pochi veri medici-scienziati apparsi sulla scena italiana nel tardo '800 e nel primo '900, sia sfociato in clamorose sconfitte. Nel libro si dice, per esempio, di Murri, della sua serietà scientifica, delle sue preoccupazioni teoriche, del suo reale impegno sociale e politico; ma non delle feroci campagne di linciaggio che lo distrussero. Si parla anche delle prime partecipazioni incrociate con i nuovi poteri economici, come nel caso della preparazione antimalarica proposta da Baccelli, "perfezionata" da Grassi e commercializzata dalla Bisleri, ben più costosa del chinino di stato grazie all'aggiunta di vari "ricostituenti". Tuttavia si omette ogni informazione sul destino dei pochi scienziati rigorosi contrari a tali operazioni - sino al caso limite delle clamorose e volgari aggressioni orchestrate da Selavo contro un uomo come Marchiafava - così mimetizzando la palude in cui buona parte della medicina italiana si accinge a sprofondare.
A questo punto non sorprende la chiusura de libro, che invoca una autocritica e una autoriforma della medicina sino a più adeguate scelte sul piano scientifico-culturale, pratico e sociale. Una spinta innovativa dall'interno, di certo, è importante; anzi, indispensabile. Ma nessuno più crede oramai che un vero cambiamento possa avvenire prima di un lungo e aspro confronto tra il corpo separato della medicina e i suoi molti interlocutori sempre più frustrati e diffidenti. E in questo confronto è indispensabile il contributo di viva intelligenza, di profonda cultura, di storica saggezza, di certosina pazienza, che Giorgio Cosmacini e pochi altri possono offrire nell'odierna grande fiera di vanità e opportunismi.
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