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Pappe, che insegna storia all'Università di Haifa, dà ai suoi testi, come gli altri nuovi storici israeliani, un taglio fortemente morale. Per lui la verità non è un dato apodittico, ma si forma attraverso il dialogo tra diversi interlocutori. E l'irruzione della Palestina nella storia non è germinata dall'incontro con l'Occidente. Il contatto con il mondo sviluppato (nel 1799), peraltro, spesso è stato arbitrariamente considerato il punto d'inizio della modernizzazione. Iniziare a raccontare la storia è dunque già prendere posizione, e la storia di Pappe è "demodernizzata". Si volge alla società subalterna. L'approccio "modernizzatore" ha del resto escluso per anni una quantità di attori della società civile, anche embrionale, che Pappe vuole mettere in luce. Lo scontro dei nazionalismi è il frutto maturo della concezione modernizzatrice, e anche la storiografia palestinese è figlia di questo pre-giudizio storiografico. La storia della Palestina viene, insomma, rappresentata come la storia di un conflitto, ma si tratta di una semplificazione di taglio occidentale. E siccome gli israeliani sono considerati più "occidentali" degli arabi, le narrazioni storiche li hanno il più delle volte seguiti con maggiore simpatia. Il paradigma si è però complicato e la fortuna dei nuovi storici israeliani è oggi dovuta in gran parte al fermento etico e "terzomondista" di gran parte della cultura progressista che, avendo in mente il conflitto tra il nuovo Golia/Israele e il nuovo Davide/Palestina, guarda con interesse alle tesi di autori come Pappe. Il conflitto viene così, forse contraddittoriamente, riprodotto a vantaggio dei palestinesi, almeno sul terreno culturale. A riprova di ciò, il 1948, in questo libro certo importante e destinato a durare, è diviso in due esodi dei palestinesi, definiti da Pappe "pulizia etnica", con tutti i rimandi che questo termine forte evoca nelle nostre menti.
Paolo Di Motoli
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