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Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma. Vol. 1
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1991
653 p.
9788815026705

Voce della critica


recensione di Detti, T., L'Indice 1992, n. 1

Il primo volume di quest'opera apparve nel 1967 ma oggi, leggendo il secondo, si ha l'impressione di tornare ancora più indietro nel tempo. Non perché il dibattito sulle origini del fascismo tace da molti anni (riaprirlo è se mai titolo di merito), ma per un taglio che rinvia direttamente alle rappresentazioni della storia dell'Italia liberale fornite dai contemporanei. Cosi è per l'usanza di ripercorrerla a ritroso dal suo epilogo; così per una proposta interpretativa che si colloca nel cuore della tradizione liberaldemocratica, temperando il pessimismo delle sue varianti radicali con la convinzione che quella dello stato unitario fosse una fisiologica "crisi di crescenza"; così per l'ideologismo che presiede all'impostazione storiografica dell'autore. Benché si appelli insistentemente alla "realtà delle cose", Vivarelli guarda infatti alla storia italiana ed europea tra Otto e Novecento dall'alto di uno schema ideale e politico precostituito, che ne fa uno storico compiutamente militante: "Io - esordisce facendo pensare a una vera e propria immedesimazione - ribadisco il mio accordo con il modo in cui giudicarono la guerra e ne indicarono le ragioni quegli uomini che rappresentarono il cosiddetto interventismo democratico
Le conseguenze di un'interpretazione così rigida della storiografia come impresa etico-politica non sono avvertibili soltanto nel suo indulgere a una precettistica di sapore metastorico. Recalcitrante ad adattarsi al suo schema, la "realtà delle cose" gli fa sovrapporre all'argomentare dello storico enunciazioni apodittiche, come quelle con cui conferma la sua certezza che la grande guerra sia stata uno "scontro frontale tra militarismo e democrazia". Liquidando gli studi sulla letteratura e la memoria di guerra perché "non è... attraverso le personali reazioni dei partecipanti e il calcolo dei sacrifici umani complessivamente sofferti, che si potrà stabilire che cosa la guerra 1914-1918 significò nella storia d'Europa", Vivarelli dà al suo assunto un valore assiomatico e ne deduce che la sconfitta del "principio legittimista" avrebbe "necessariamente aperto la strada al principio della sovranità popolare".
Su questa asserita necessità si fonda la sua analisi della crisi dello stato liberale, condotta lungo le direttrici di tre "problemi assai antichi", per sciogliere i quali incastona altrettanti libri in quello dedicato al 1919-20: gli "effetti del suffragio universale maschile sul sistema politico", la questione socialista e la protesta contadina. Le loro posizioni nella gerarchia di rilevanza dell'opera sono tuttavia diversificate perché il sistema politico viene usato come categoria interpretativa privilegiata.
Entrato in crisi con la riforma elettorale del 1912 il sistema politico che aveva garantito la governabilità del paese mediante il trasformismo e l'amministrazione, per Vivarelli occorreva ricostruire una maggioranza parlamentare che correggesse lo squilibrio fra arretratezza economica e libertà politica con alcune grandi riforme: burocratica, tributaria, doganale e agraria. La vittoria dell'Intesa e il suffragio universale - segnando "l'avvento della democrazia" - lo consentivano, ma nel 91 una campagna elettorale in chiave di processo alla guerra aprì "una profonda contraddizione tra il corso effettivo delle cose e il modo in cui i contemporanei le giudicavano".
Oltre che nella scarsa consapevolezza dell'opinione pubblica, Vivarelli vede i maggiori ostacoli a una soluzione riformatrice in un "paese reale" povero, incolto e socialmente disarticolato (ai cui ceti popolari eterogenei, sordi ai "valori nazionali" e diffidenti del potere non concede una "pubblica opinione politica", ma solo sentimenti e generici stati d'animo) e nella vittoria elettorale di cattolici e socialisti: i partiti più moderni ma anche più estranei allo stato unitario, che non riconoscevano "il significato ideale" del conflitto. Occupando questi uno spazio proporzionale al loro ruolo nella soluzione della crisi, è significativo che a quello cattolico siano dedicate "soltanto" 45 pagine tra le meno originali di un libro che ne risulta molto squilibrato.
Costantemente alla ribalta sono invece i socialisti, la cui storia viene tutta ripercorsa per approdare a una condanna senza appello, che coinvolge i riformisti non meno degli intransigenti. È anzi ai primi, cui sarebbe spettato farsi carico della stabilità delle istituzioni che tocca forse il giudizio più severo. Il procedimento non è nuovo, ma non per questo è meno discutibile. Nel riformismo si individua "soprattutto l'affermazione di un metodo, cioè di uno strumento che può porsi al servizio di fini diversi, coincidente in quanto tale con lo stesso metodo democratico", nel quale "la meta ha sempre carattere transitorio". Preso Bernstein a modello e ravvisata in Turati e negli altri "cosiddetti riformisti" una generale incomprensione della sua opera, Vivarelli nega loro la stessa qualifica con la quale sono passati alla storia.
È invece l'intransigenza, a suo parere, il filo rosso che percorre l'intero socialismo italiano "e ne segna tutte le correnti". Condividendo il mito di una società basata sulla proprietà collettiva, la giustizia e la solidarietà, che si fa risalire al "socialismo integrale" di Osvaldo Gnocchi-Viani, anche Prampolini viene così espunto dalla storia del riformismo. Il senso del ragionamento è ben chiarito dal rilievo assegnato a una lettera di Francesco Papafava, che nel 1888 si domandava perché mai il partito operaio dovesse " necessariamente essere socialista". Per questo Vivarelli non trova tracce di riformismo in un movimento che considera in blocco massimalista: ciò che gli rimprovera è per l'appunto il suo socialismo, perché il sogno di una società nuova e più giusta ne rendeva "sovversiva" l'opposizione allo stato liberale. Chiave di volta della sua interpretazione è insomma la nozione di compatibilità: posto che si trattava di istituzioni libere e necessariamente destinate a divenite democratiche grazie alla guerra e al suffragio universale, la funzione storica del movimento socialista (come di ogni altro) è positiva solo se e in quanto non soltanto i suoi atti, ma addirittura i suoi propositi si collocano entro quel contesto. Lo stesso criterio presiede anche alla parte sulla protesta contadina tra Otto e Novecento, che pure resta la più pregevole perché ne sbalza con energia il ruolo dirompente e tenta una lettura unitaria di un movimento molto frastagliato. Egemonizzato dai socialisti, questo gli appare infatti "tendenzialmente sovversivo" non solo perché a ciò predisposto da una larga base bracciantile che era "il simbolo stesso di una situazione di arretratezza", ma anche e soprattutto perché si prefiggeva il fine politico della socializzazione della terra, incompatibile "con la stabilità dell'assetto istituzionale".
Non casuali distinzioni in questo quadro vengono tuttavia introdotte di fronte alla guerra: dato che l'esercito fece il suo dovere, Vivarelli si chiede se essa "non abbia ridotto l'estraneità dei contadini nei confronti del sentimento patrio". E poiché gli obiettivi immediati delle loro lotte erano in genere fondati e compatibili con le istituzioni e le esigenze produttive, quelle masse rurali già in così larga misura massimalista corrispondono ora "nel senso più proprio all'Italia di Vittorio Veneto". La fortuna di un massimalismo infine degradato a travisamento dell'ultima ora viene così ascritta alla delusione dei fanti-contadini per la latitanza dei governi, al malanimo dei proprietari e soprattutto a una "infatuazione" che si vorrebbe indipendente dalla guerra perché emersa dopo quasi un anno. Sul banco degli accusati sono di nuovo la Federterra e il Psi, alla cui propaganda si fa carico di aver introdotto nella lotta politica un clima di intolleranza e di violenza ingigantito rispetto a quanto il libro documenta.
Acquisita una valenza eversiva, la protesta contadina viene ridotta a questione di ordine pubblico e il suo fallimento apre la strada al fascismo. Giudicando prioritaria "la difesa della legalità istituzionale di fronte alla forza dei socialisti e ai loro propositi sovversivi", Vivarelli critica Nitti e Giolitti per averne cercato il consenso: "Nell'interesse stesso di quelle masse che i socialisti pretendevano rappresentare, assai meglio avrebbe giovato una politica francamente ispirata a criteri conservatori e che a quegli stessi criteri avesse subordinato l'attuazione di quelle riforme, che sia l'esistente maggioranza di governo, sia l'opinione pubblica, sarebbero state pur disposte ad accettare, ma solo in quanto esse potessero apparire come un valido e necessario antidoto contro il socialismo"
Ma l'antidoto fu un altro e a Vivarelli, avendo stabilito in premessa quale dovesse essere la soluzione della crisi, non resta che interrogarsi nel modo più datato e riduttivo sulle cause dell'avvento del fascismo. Di chi la colpa? Al termine di un libro imperniato sulle responsabilità dei socialisti, la risposta punta il dito su una classe dirigente venuta meno ai suoi compiti per aver lasciato incancrenire la questione contadina, rinunciando a nazionalizzare le masse. Poiché le istituzioni liberali esigevano l'"emancipazione materiale e morale delle plebi", "nel momento stesso in cui, con il suffragio universale, la democrazia a queste plebi apriva le porte, quelle istituzioni non riuscirono a svolgere la propria funzione". Se pure l'autore insiste sulle drammatiche condizioni di vita di milioni di cittadini liberi soprattutto "di morire di fame" e sul carattere antipopolare dello stato, tutto ciò non rimuove una incoerenza di fondo perché si sovrappone senza scalfirlo all'assunto che l'Italia fosse una "democrazia in cammino" e viene addebitato alla sola classe dirigente, come se questa fosse scindibile da uno stato vivente di vita propria
Perché allora non chiedersi se e in quale misura non solo l'assetto istituzionale, ma anche i rapporti di potere economici e sociali dell'Italia liberale fossero compatibili con l'emancipazione delle masse? La domanda non è peregrina, ma presuppone anch'essa una definizione, speculare a quella di Vivarelli. Per riaprire il dibattito occorre invece emanciparlo dall'eccessiva influenza della riflessione dei contemporanei, che non a caso lo ha soffocato, rifondendo su basi analitiche un'aggiornata interpretazione dei caratteri originali dello stato liberale e del loro mutare nel tempo. Senza assumere - come è stato scritto - n‚ il momento della libertà, n‚ quello dell'autorità come dati prioritari, ma studiandone le concrete interrelazioni. Non più figlio delle colpe della classe dirigente liberale e di un'opposizione in ritardo con la storia perché socialista, anche il fascismo potrà così trovare una collocazione più adeguata nella vicenda dell'Italia contemporanea.

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