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Sulla recitazione - Sanford Meisner,Dennis Longwell - copertina
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Descrizione


Sanford Meisner, scomparso nel 1997, è il più stimato e conosciuto insegnante di recitazione degli Stati Uniti. Il Maestro ha formato generazioni di star e registi internazionali, come Grace Kelly, Gregory Peck, Steve McQueen, Jeanne Woodward, Lee Grant, Peter Falk, James Caan, Anne Jackson, Eli Wallach, Robert Duvall, Diane Keaton, Jon Voight, Jeff Goldblum, Sydney Pollack, Bob Fosse, John Frankenheimer, Mark Rydell, David Mamet, John Cassavetes e Sidney Lumet. I suoi discepoli sono stati a loro volta i maestri di Susan Sarandon, Johnny Depp, Sandra Bullock, Tom Cruise, Michelle Pfeiffer, Kim Basinger, Joan Allen, Dylan McDermott, James Gandolfini, Ben Stiller. Questo libro, scritto in collaborazione con Dennis Longwell, segue per quindici mesi una classe di recitazione composta da otto donne e otto uomini, a partire dagli esercizi più rudimentali fino ad arrivare allo studio accurato di scene tratte da testi di importanti scrittori americani contemporanei. In queste pagine Meisner, con grande ironia, stimola i suoi studenti ad andare avanti, provocando emozioni e risate, in un continuo crescendo di risultati grazie alla maestria della sua tecnica. Sydney Pollack, regista di "La mia Africa" e "Tootsie" e stretto collaboratore di Meisner per cinque anni, ha curato l'introduzione.
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Dettagli

2007
13 settembre 2007
192 p., Brossura
9788875270346

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Davide Schiavoni
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"Sapete, nella sua vita reale Beethoven era un bastardo. Un vero bastardo. Ma la sua musica è pura e basata sulle sue emozioni autentiche. Perciò era un grande. [...]. Voglio dire che la verità su noi stessi è la radice della nostra recitazione". Dunque per quanto s'abbia un'indole marcia, l'importante è che si rimanga fedeli ad essa per eccellere nella recitazione come in qualsiasi arte? Ma vaff... Al di là dell'apparenza brillante, faceta, arguta e financo sensibile, pure Meisner, in linea con gli standard dei registi e didatti della materia, rivela la sua "amorevole" natura sadomasochista, che ben si concilia con quella autolesionistica degl'aspiranti attori di turno. Mai capito il senso di 'sta "sanguinolenta" via crucis che le scuole stanislavkijana e americana, con le rispettive varianti, propinano da oltre un secolo: se il Metodo punta all'immedesimazione totale nel personaggio, di cui s'eredita il bagaglio (solitamente) tragico di pene e angosce, la formula meisneriana è quella di ricercare in se stessi le "emozioni autentiche" che s'adattano al ruolo da interpretare. Nel primo caso ci si carica sulle spalle il fardello d'un'altra individualità; nel secondo è il proprio "io" che viene gravosamente duplicato, come se ciò che si è già vissuto una volta in prima persona non fosse una punizione più che sufficiente. Insomma, nonostante le modalità differenti, in entrambe le ipotesi il risultato è sempre il medésimo: un estenuante e angustiante raddoppio del negativo. Roba che non augurerei manco al peggior nemico. Per la fortuna e l'integrità psicofisica di coloro che sono meno inclini all'autoflagellazione, esistono tecniche attoriali opposte a quelle succitate, ma parimenti veritiere e credibili. Durante le riprese de "Il Maratoneta", Dustin Hoffman era solito farsi correndo svariati giri del set, per calarsi meglio nella parte. Una volta Laurence Olivier, vedendolo sudato e trafelato, gli s'avvicinò dicendo: "Ma non facevi prima a recitare?"

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