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Questo è l'ultimo libro di Rezzori (1914-1998) pubblicato in vita, in cui l'autore riannoda i fili delle trame dei suoi scritti, ricostruendo il proprio percorso esistenziale, rettificando e precisando che cos'era autobiografico e che cosa no, come ha fatto Günter Grass in Sbucciando la cipolla (anche in Sulle mie tracce c'è la metafora della cipolla, peraltro non originalissima). Rezzori ha sempre giocato con la sua autobiografia, negando al contempo di volerla scrivere, e qui spiazza il lettore con il finale: "Insieme guardiamo (
) al mio prossimo libro: finalmente una vera biografia". In copertina c'è una foto dell'autore da vecchio, che si allontana in una città fantasma. Landolfi svela che è stata scattata ad Auschwitz, di cui Rezzori descrive con orrore la dimensione ragionieristica, "che i nostri concetti morali non arrivano a cogliere".
Gli avvenimenti dalla nascita alla fine della seconda guerra mondiale occupano tre quarti della narrazione, l'ultimo quarto è dedicato al cinquantennio successivo, in cui quasi per caso è diventato scrittore. Sembra che voglia chiarire definitivamente la sua visione della storia della prima metà del XX secolo, le cui tortuose vicende hanno determinato la sua personale storia nomade e avventurosa: "La vita mi ha vissuto". Ci imbattiamo in due concetti interessanti e originali: il primo è Epochenverschleppung: "Con essa s'intende l'anacronistica sovrapposizione di elementi di realtà, che appartengono specificamente a un'epoca trascorsa, in quella successiva", tradotto con "differimento epocale". Il secondo è "la guerra civile europea dei trent'anni che, dal 1914 al 1945, ha spazzato via per sempre istituzioni, valori, concezioni, atteggiamenti, gesti fino a quel momento normativi".
L'autore dà un'interpretazione degli avvenimenti dal suo punto di vista ex-centrico di apolide. Confessa il desiderio di non partecipare alla guerra, che si avvera per un felice cavillo burocratico, non è tenero né con i tedeschi né con gli Alleati (è stato cronista al processo di Norimberga, sulla cui legittimità nutriva dei dubbi). Non ha peli sulla lingua nei confronti della Repubblica federale dopo la riforma monetaria del 1948, avvertendone tutta l'angustia politica e culturale, e neppure della riunificazione, occasione perduta "con la mobilitazione in pompa magna di tutte le peggiori qualità tedesche: intolleranza, senso di superiorità, pesantezza, invidia, brama di possesso, odio". Non risparmia neppure gli austriaci, dedicando a Vienna delle pagine assai divertenti e perspicaci. Se c'è un popolo che riscuote la sua ammirazione e il suo affetto è quello ebraico: "Contro lo spirito del tempo avevano fatto nascere una società libera, tollerante, cosmopolita, artisticamente avanzatissima". Lo preoccupa il futuro della terra, il progresso che la soffoca: la sua utopia di Anthropolis, la città del Bello, del Buono e del Vero, che sarebbe potuta nascere dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, non si realizzerà mai.
La lingua tedesca, difesa con incrollabile fermezza da suo padre contro le commistioni "orientali" dell'impero austro-ungarico, è l'unica sua vera patria, la lingua in cui sceglie di scrivere fra le innumerevoli che padroneggia. In questo ricorda Canetti, anch'egli nato nell'Europa orientale e vissuto in diversi paesi, per il quale il tedesco era la lingua segreta dei genitori, e quindi la più amata.
Dispiace constatare che il Kritisches Lexikon zur deutschsprachigen Gegenwartsliteratur, opera vastissima a fogli mobili continuamente aggiornata, che purepresenta molti pesi piuma, non comprende Rezzori. Il pregiudizio è duro a morire. Questo rende ancora più meritoria l'opera di Andrea Landolfi, suo paladino in Italia. Del resto in Sulle mie tracce lo scrittore dichiara di aver passato i migliori anni della sua vita nel nostro paese, dove si è sentito più capito che in Germania; Magris si è occupato di lui già nella sua tesi di laurea. Come ho già scritto (cfr. "L'Indice", 2002, n. 5; 2003, n. 3 e 2007, n. 1), Rezzori ha un respiro troppo internazionale, è troppo dotato di ironia e autoironia, è pericolosamente iconoclasta; i suoi libri di maggiore successo in Germania, negli anni cinquanta, erano umoristici ("finalmente ci si era affrancati da quella penosa mescolanza di colpa collettiva e 'sangue e suolo'"), ma in seguito la sua vena più critica e riflessiva non venne apprezzata.
La postfazione è eccellente nella sua stringatezza, la traduzione quasi impeccabile; sorprendono peraltro alcune pigrizie e inesattezze: perché lasciare in tedesco il sostantivo Piefke (piccoloborghese, recluta, soldato tedesco), non preoccuparsi di scoprire che cosa sono die Schotten (monaci, soprattutto benedettini, come gli irlandesi che cristianizzarono la Germania, chiamati impropriamente scozzesi), scrivere intellighenzia al posto di Boofkes (ignoranti, stupidi)? Perché tradurre letteralmente dei modi di dire come "mescere vino puro" (dire la pura verità), "mangia, uccello, oppure muori" (o mangi questa minestra o salti dalla finestra)?
In sua memoria è stato istituito a Firenze nel 2007 il Premio Vallombrosa Gregor von Rezzori, dedicato alla narrativa straniera e, non meno importante, alla sua traduzione in italiano, voluto dalla vedova di Rezzori, direttrice della Santa Maddalena Foundation, che ha sede nella sua bellissima tenuta, dove vengono ospitati scrittori e botanici. Marina Ghedini
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