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Anno edizione: 2019
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recensione di D'Elia, G., L'Indice 1998, n. 7
Con quel tono svagato con cui si riesce a volte a dire la verità, pur tra le reticenze poetiche della "koinè" lirica novecentesca, Franco Buffoni apre il suo nuovo libro di poesie, dal titolo così crepuscolare e sornione, invitandoci a percorrere i capitoli narrativi del suo sintetico "romanzo di formazione" in versi. Perché questo "Suora carmelitana", senza voler scoprire come implicito l'esplicito, ci viene presentato di fatto dall'autore come "una "Bildung"" del proprio personaggio autobiografico controtipato, in cammino dall'infanzia adolescente alla giovane maturità.
Dopo vent'anni di poesia e vari libri, con l'insistenza del lavoro critico e di traduttore al fianco, Buffoni definisce così la propria figura di autore in un tono che pare rileggere certi snodi quotidiani della "linea lombarda" (Erba, Risi, il Sereni penultimo) alla luce di un protonovecento dichiarato (Pascoli, Corazzini, Palazzeschi), dove l'ironia illuministica convive con l'eresia discorsiva: scrivere versi facendo uso del racconto, e non il contrario.Il demone della sineddoche critica porterebbe a concentrarsi proprio sulla ambiguità di questa strategia, in cui il fine (il verso) è truccato dal suo mezzo di trasporto (il racconto), per arrivare a sondare altre ambiguità strutturali decisive. Innanzi tutto, il rapporto tra occasioni e allusività, tra referto e figurazioni. In questo senso, la nota dell'autore è un paratesto illuminante del suo essere stretto tra la vecchia "koinè" testuale e i suoi strascichi di inespresso e implicito, e una volontà di chiarezza e commento che almeno presenti al lettore una direzione di senso preciso. Che la poesia, una certa poesia, non basti più a se stessa, è il segnale quindi di una piccola resa e di un grande avvenire non ancora sbocciato, anche per quegli autori lontani dall'oscurità ermetica e tardosimbolista, e che tuttavia non riescono ancora a liberarsi dal senso comune poetico del Novecento, dalle sue linee dominanti (eppure, Buffoni, in "Protezione della giovane", ha scritto forse il suo più bel ritratto, espresso ed ellittico, di ragazza proletaria di servizio). Si pensi all'opposizione che Debenedetti ha indicato tra Montale e l'antisimbolismo di Saba. Così, negli otto racconti di Buffoni, convivono entrambe le opzioni: frammento lirico e narrato esplicito, verso e storia, fine e mezzo, anche se la reticenza si stempera in certi poemetti (sarebbe forse più giusto chiamarli così) più che in altri. L'esperienza militare raccontata in "Aeroporto contadino "e l'educazione cattolica accennata in "Dio sia benedetto" funzionano allora in chiave esplicita; mentre l'amore diverso vissuto in "Cinema rosa" o l'intervento chirurgico crittato in "Pelle intrecciata di verde" paiono riguardare un tasso di indicibilità più acuta, che giunge in "Spiga di grano matto" alla allusività più aperta, e cioè chiusa alla vicenda reale di una ragazza morta di malattia (per droga?) di cui anche il nome è taciuto: "Il suo nome non era che una confusione / di sillabe". Il poemetto eponimo, con la zia suora carmelitana visitata dal bambino che si rievoca da adulto, è quindi il tramite di una figurazione della stessa poesia come clausura da incarnare, comunicazione tra i due mondi della storia comune e del silenzio da preghiera; probabile posta in gioco del territorio intero della nuova poesia italiana, e non solo di un libro affabile e ambiguo come questo di Buffoni, tanto più importante nel rilevare la precisione di uno stile basso, da falsa rima e assonanza, diviso tra l'eresia del libertino e la nostalgia del bambino cattolico, in cammino verso il "Monte Athos" (titolo dell'ultimo bel poemetto di viaggio) della realtà più espressa ed esplicita.
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