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Anno edizione: 2020
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Gertrud Chodziesner, poetessa tedesca di origine polacca, è nata a Berlino nel 1894 da una famiglia ebrea benestante. Kolmar, lo pseudonimo che userà per pubblicare, in tedesco è il nome della città polacca Chodziez, da cui proviene la sua famiglia. Il padre è un noto avvocato berlinese, appassionato di letteratura; deve a lui la pubblicazione del primo libro di poesie, uscito a Berlino nel 1917. Si diploma e lavora come traduttrice, parla e scrive correttamente inglese, francese, russo ed ebraico, traduce autori come la Dickinson, Verlaine, Rimbaud. Con l’arrivo al potere dei nazisti, scopre ben presto gli orrori della guerra e dell’antisemitismo sfociato nelle leggi razziali. Il 2 marzo del 1943 è sul treno del cosiddetto “Trentaduesimo trasporto all’Est”: destinazione senza ritorno, Auschwitz. Negli ultimi anni della sua vita, aveva consegnato ai suoi vari parenti, ma soprattutto al libraio ariano Peter Wenzel, marito della sorella Hilde ed a Hilde Benjamin, vedova del fratello di Walter Benjamin, Georg, arrestato nel 1933 e morto a Mathausen, gran parte dei suoi scritti.
Finita la guerra, grazie all’impegno di questi depositari, è stato possibile ricostruire la maggior parte dell’opera di Gertrud Kolmar che comprende 445 poesie suddivise in dieci cicli l’ultimo dei quali, “Welten” (mondi), scritto in versi liberi, è datato sul manoscritto 17/08/1937 – 20/12/1937. All’opera poetica si aggiungono un unico romanzo “Eine Jüdische Mutter” (una madre ebrea) del 1930/31, un saggio su Robespierre del 1933, due drammi ed infine un racconto, Susanna, datato 29/12/1939 – 13/02/1940. Quest’ultimo è stato di recente pubblicato dalla casa editrice Castelvecchi (76 pagine, 11,50 euro) nella traduzione dal tedesco di Mario Allegri e con una esaustiva introduzione della germanista Marina Zancan. Sebbene per parecchi anni il nome di Gertrud Kolmar resterà ignorato e sconosciuto, oggi è annoverata tra le più grandi poetesse tedesche. Nella sua produzione predomina la scrittura in versi, ma nella seconda fase della breve vita avviene il passaggio alla prosa, una prosa “poetica” che richiama la liricità della poesia. È poetessa anche nella prosa, è poetessa quando narra un’esperienza vissuta, una storia vera.
Non sono una scrittrice, no. Fossi una scrittrice scriverei una storia. Un bel racconto con un inizio e una fine scriverei con quel che so. Ma non posso farlo. Non sono un’artista. Soltanto una vecchia istitutrice.
L’incipit svela l’io narrante, un’anziana istitutrice, perseguitata nella Germania nazionalsocialista, che racconta il suo rapporto con una ragazza che ha preso in cura tanti anni prima, Susanna, affetta da una nevrosi. La follia non impedisce alla giovane creatura di toccare una profondità che soltanto una straordinaria poetessa come la Kolmar poteva “tradurre” in prosa. La forza del racconto è centrata proprio sulla follia di Susanna, la “diversa” che pronuncia parole strane, che conosce l’amore e ama candidamente un ragazzo del suo villaggio, sebbene questo amore sia osteggiato da tutti e assecondato soltanto dall’istitutrice. Ciò che incanta e affascina non è la trama, ma la liricità e la magia del linguaggio, un vero e proprio viaggio tra le parole che svelano l’interiorità della Kolmar.
« Ci sono parole che si possono prendere in mano. E altre che si possono annusare…Per esempio:padella. Non mi piace dire “padella”, perché tutta la stanza si riempie subito dei vapori della cucina»
[…] E cosa dici allora?». Ci pensò bene. «Allora dico:rosa». E osservai il lieto moto delle sue labbra:il loro respiro fioriva delicato, soffio di foglie roride, profumo meraviglioso. Rosa.
Attraverso la “prosa poetica” di tale racconto Kolmar ci narra con una sensibilità e profondità inedite non solo l’amore, ma anche la natura, due temi che le sono cari e che compaiono in tutta la sua produzione letteraria, soprattutto nei suoi versi. Susanna ha uno stretto legame con il paesaggio naturalistico. «Susanna si muove nella natura in un rapporto libero dalle categorie della storia, la rinomina, la trasforma e si trasforma in essa», si legge nella prefazione di Zancan. Sull’amore e sulla natura si poggia lo sguardo, quello interiore e quello esteriore, della nostra poetessa che nel racconto si sdoppia in due diverse figure femminili: Susanna che rappresenta l’innocenza e l’ingenuità, portate ad estreme conseguenze dalla follia, e l’istitutrice che con i suoi capelli grigi e l’età matura rappresenta la ragione, la saggezza. La prima crede nella forza delle parole, nel loro potere di cambiare storie e destini, forse il mondo; la seconda, invece, con la sua apparente freddezza e il suo per certi versi cinismo, esclude categoricamente che i versi e la prosa possano apportare un cambiamento. Sono due visioni opposte, due modi diversi di stare al mondo che testimoniano la complessità dell’interiorità e dell’esistenza della poetessa. Ma Susanna è una ragazza che va incontro alla morte e in tale scelta narrativa si può riscontrare la consapevolezza di Gertrud Kolmar di andare incontro ad un destino beffardo. Castelvecchi, con la pubblicazione del racconto Susanna, ha il grande merito di contribuire a far conoscere una poetessa che fa poesia anche quando scrive in prosa, ancora troppo poco conosciuta, letta e apprezzata.
Ma, dimmi…potrebbe accadere questo? Che le parole svaniscano dai libri? I caratteri sbiadiscono sempre di più, finché non diventano molto tenui, e infine la parola non esiste più. E nello spazio vuoto ne prende lentamente forma un’altra: dapprima le lettere sono indistinte e grigie, poi via via diventano sempre più chiare, sempre più nere…E così nei libri nascono storie completamente nuove, ma forse anche frasi che nessuno capisce. E possibile?
Recensione di Arcangela Saverino
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