Negli ultimi anni non sono mancate pubblicazioni eccellenti su specifici aspetti della vita e l'opera di Italo Svevo. Dall'analisi di strategie discorsive e contenuti della prosa narrativa (Menzogna e verità nella narrativa di Svevo, Guido Baldi, 2010) alla trattazione di opere più in penombra come quelle teatrali (La forma delle forme. Il teatro di Italo Svevo, Cristina Benussi, 2007), gli studi su Svevo fioriscono e contribuiscono a tracciare la mappa immaginaria di questo singolare signore di media borghesia a cavallo fra Otto e Novecento, che riuscì a imbrigliare parzialmente la propria abissale coscienza dislocandosi in vite altrui per potersi studiare meglio. A racchiudere tutte queste vite inventate ha pensato Gino Tellini, con una monografia della collana "Sestante" (incentrata sugli scrittori italiani) in un volume che si colloca a metà fra il ponderoso tomo accademico e il sunto breve a rischio "bignami". Già autore di numerosi studi sui grandi narratori della modernità italiana (Manzoni, Pirandello, Palazzeschi) e sull'evoluzione della forma, minoritaria, del romanzo in Italia (Il romanzo italiano dell'Ottocento e Novecento, 1998), Tellini giustifica il suo approccio alla monografia in difesa del "disegno d'un profilo generale" e della "intelligenza del fulcro coeso che tiene insieme le tante e anche divergenti componenti, etiche, sociali, culturali, espressive, della costellazione sveviana". Con tale scopo, Svevo ottiene il doppio risultato di essere accessibile ai lettori non specialisti e di costituire un contributo nuovo per gli studiosi di letteratura, per merito della ricca bibliografia e della trattazione sistematica. In ossequio al tema del doppio, centrale nell'opera di Svevo nonché nelle culture insieme della Mitteleuropa e dell'Italia di quegli anni, il libro parte proprio dal racconto, dettagliato ed equilibrato, della vita di Ettore Schmitz, nato a Trieste il 19 dicembre 1861. "Una vita che non par bella", la definì lo stesso Ettore, tanto che egli fu naturalmente portato a crearsene un'altra, più nascosta e affascinante, di artista, addirittura di uomo di lettere: un'occupazione che nella comunità triestina fin de siècle, per lo più dedita ad attività pratiche e commerciali (e che fra le arti apprezza al massimo la musica), non è affatto vista di buon occhio. E uno dei meriti maggiori di Tellini sta nell'aver affrontato, da subito, la questione di Trieste in rapporto a Svevo. Con una mossa da autentico romanziere, Tellini apre la sua monografia con due paragrafi dedicati alla città, la indaga con l'aiuto delle riflessioni di Umberto Saba ed Eugenio Montale, ne dipinge il carattere cosmopolita, concreto, nevrotico con delicatezza. Da queste radici, Tellini ripercorre le vite parallele di Ettore Schmitz e Italo Svevo, che non entrano in conflitto fra di loro ma si aiutano e si spiegano a vicenda, nel tentativo inesausto e, Svevo insegna, impossibile da portare a compimento, di dare un senso provvisorio alla malattia dell'esistenza. La letteratura si pone dunque come un'analisi continua, un work in progress la cui validità deve essere ogni volta messa in discussione e anzi, nell'esperienza personale di Schmitz, viene negata più di una volta. Come dimenticare la pagina del diario che comincia così: "Io, a quest'ora e definitivamente ho eliminata dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura"? Tellini va a fondo dentro i pensieri e le azioni che, nella vita di Ettore Schmitz, sottendono quell'affermazione perentoria, e inoltre la ricontestualizza, collocandola nell'ottica di un uomo che aveva vergogna a pensare la scrittura come un gesto di suprema eleganza o un'esaltazione vitalistica. Un intellettuale, insomma, posto a difesa di un'idea più precaria, e più verosimile, della vita dell'individuo contemporaneo (che, ricorda un altro doppio di Schmitz, Zeno Cosini, è "inquinata alle radici"), e molto lontano dal modello dannunziano, ripreso dalla maggioranza degli scrittori di inizio Novecento sia pure e contrario, come nei crepuscolari o nella letteratura della "Voce". Riassumere una vita, sia di carta o di carne, è quasi impossibile: nei casi più riusciti, la si racconta per esteso in un romanzo, ed è quello che il romanziere Italo Svevo fece dal 1892 (Una vita) al 1923 (La coscienza di Zeno) e oltre (gli abbozzi del quarto romanzo dal titolo provvisorio, esaminati con attenzione da Tellini). Ci si limita a notare che l'equilibrio del volume risiede anche, e soprattutto, nella capacità di Tellini di dare attenzione non solo alle opere "canoniche" di Svevo, rischiando di appiattirsi sui tre grandi romanzi, ma anche al resto della produzione, ancora pressoché ignota al grande pubblico. Gli scritti giornalistici, il diario, l'epistolario (memorabili le citazioni dal lungo carteggio con la moglie Livia Veneziani), il teatro quasi interamente inedito, eppure di una comicità travolgente e puntuta, le novelle, di scarso numero ma di valore paragonabile solo a quelle del coetaneo Pirandello. Leggere Svevo sarà dunque per il lettore come aprire un cassetto nascosto e molto profondo, al punto che, a ripercorrere la doppia vita di Schmitz e Svevo, si potrà confutare l'affermazione di Schmitz sulla "vita che non pare bella" con un'opinione di Zeno Cosini: "La vita non è né brutta né bella, ma è originale!". Lorenzo Marchese
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