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Descrizione


Si tratta di una testimonianza autobiografica sulla sorte dei fascisti dopo la Liberazione, di coloro che dalla guerra uscivano vinti e che l'Italia repubblicana chiamò a pagare la "tariffa" delle proprie responsabilità. Il racconto prende le mosse negli ultimi giorni di aprile quando Vincenzo Costa, l'ultimo federale fascista di Milano, è catturato dai partigiani sul lago di Como, giusto qualche ora prima che il duce, poco distante, cada fucilato. Questa memoria, cui Costa ha affidato il ricordo della sua reclusione, è una testimonianza diretta sulla sua sorte e offre una prospettiva rovesciata del dopoguerra italiano, che al fascista appare un purgatorio degradato di angherie e miserie, dove l'unica luce è la fedeltà al passato.
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Dettagli

2000
24 marzo 2000
110 p.
9788815073419

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Maurizio Froldi
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Queste pagine narrano la vita di Costa nelle galere italiane. Un anti-tedesco, Costa, cui non si poteva chiedere di non adeguarsi: resta un fascista a tutto tondo, tutt’altro che pentito, che vive, a guerra finita, per credere ed obbedire. Non si cerchino autocritiche o comprensioni verso la parte avversa: si trova, come scrive Luzzatto nell’introduzione, "la cultura del fascismo sopravvissuto a se stesso". Al di là di ciò, Costa si fa leggere, eccome. Due i meriti della sua prosa. Una secchezza stilistica che rende facile la lettura. Il fatto di non sconfinare mai nel piagnisteo, neppure quando narra episodi davvero fastidiosi. Da non dimenticare un veloce passaggio, che descrive l’ambiente della pineta fra Pisa e Livorno, dove gli americani si erano insediati, con decine e decine di “segnorine” al loro fianco. In quella zona c’è ancora una base statunitense. E lungo la statale che attraversa il bosco abbondano ancora le fanciulle di minima virtù: non più nostrane, ma di provenienza africana. Chissà Costa cosa ne penserebbe.

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Voce della critica


scheda di Pedo, A. L'Indice del 2000, n. 11

Parte conclusiva di un lungo memoriale dedicato all'esperienza di Salò e alla guerra civile (pubblicato di recente per iniziativa di Renzo De Felice), le vicissitudini carcerarie dell'ultimo federale di Milano, Vincenzo Costa, suscitano l'interesse dello storico per due ordini di ragioni. Non tanto, a nostro avviso, perché mettono in luce il clima di provvisorietà e di disorganizzazione in cui si dibatteva lo Stato italiano all'indomani della seconda guerra mondiale, puntando il dito sulla situazione esplosiva di certe carceri, come San Vittore - in cui, è cosa ormai abbastanza nota, si trovavano a convivere delinquenti comuni, partigiani accusati di rapina o violenze, fascisti collaborazionisti. Quanto, piuttosto, perché illustrano il trapasso alla nuova Italia repubblicana dal punto di vista, spesso ignorato, dei fascisti militanti, di coloro cioè che avevano rivestito importanti incarichi nel governo saloino, sostenendone fino in fondo le ragioni. La vicenda di Costa va interpretata allora come testimonianza personale di un uomo che, omettendo significativamente giudizi sul nazifascismo, rimane comunque fascista fino al midollo, guarda con rispetto Vito Mussolini, non si riconosce affatto nella repubblica e ironizza addirittura sull'aspetto fisico di coloro che lavorano per essa. Lo spirito polemico di queste affermazioni è evidente, così come la tendenza a dare una falsa immagine del fascismo milanese, presentato appunto come buono e generoso. La tariffa possiede tuttavia un valore storico-documentario più che politico perché prova ancora una volta che, dopo il 1945, certe categorie sociali (i militari e una parte del clero) avevano mantenuto sentimenti fascisti ed erano disposte a far causa comune con i sopravvissuti, pur di sventare il pericolo comunista. Senza contare i numerosi ex fascisti che, nel popolare i quadri dell'amministrazione e della burocrazia della neonata repubblica, dimostravano chiaramente la continuità con il passato e il carattere sommario di tutto il processo epurativo postbellico.

Alessia Pedìo

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