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recensione di Cacciavillani, G., L'Indice 1995, n. 1
Nella franco-italiana "Biblioteca della Pléiade" è questo, probabilmente, il volume più fortunato: più riccamente curato, con annotazioni, appendici critiche e apparati vari (bellissimo quello iconografico) che quasi superano le pagine occupate dal corpus teatrale beckettiano. Ed è un altro motivo di interesse ritrovare qui riunito "tutto il teatro", in una serie di traduzioni per più motivi esemplari. Nelle lapidarie pagine della sua presentazione, Fruttero afferma che "basta in verità aver presente l'Ecclesiaste per sapere di che cosa tratti il teatro di Samuel Beckett. Eccoci qui, tra l'urlo della nascita e il rantolo della morte..." E, di fatto, anche Adorno, in un suo intervento memorabile, ebbe a notare con forza che come la lingua si degrada a delirio maniacale, "così i personaggi regrediscono ad uno stadio post-psicologico, quale si verifica nei vecchi e nei torturati". Non molto discosto dalle "contrazioni" dello spazio letterario di Kafka, il linguaggio beckettiano (narrativo ma forse soprattutto teatrale) si pone come l'ultimo cordone ombelicale che lega alla vita per un soggetto post-vitale o pre-mortale, la cui parola non ha più senso ma che, proprio nella sua insensatezza, è nondimeno tutto.
La situazione di base è quella di una voce, tenacemente avvinta a un "qui e ora", che però, paradossalmente, è privo di dimensioni spazio-temporali ben definite, sorda all'Altro, incessantemente interrogante o mormorante, sino alle soglie del silenzio, che al vuoto immedicabile dell'esistere rimedia con un "dire" altrettanto svuotato di progettualità: "Tutto è quasi morto, ma ancora resta questa vita che non è più nulla". Poiché non esiste mai un punto di riferimento certo, una fine, una verità, un reale ricordo, il personaggio beckettiano - sempre più ridotto a presenza larvale - appare come un Sisifo delirante costretto a dire, sempre e invano, la sua infinita solitudine, la sua totale miseria (nel senso pascaliano del termine). Così, ha ben ragione Boisdeffre di osservare che queste assenti presenze "parlano della loro vita, ora come di una cosa ormai finita, ora come di uno scherzo che dura ancora, senza sapere su quale tempo coniugare quell'atomo di esistenza, quella vita e quella morte contemporaneamente presenti e assenti, in potenza e in atto".
I cicli biologici stessi sono profondamente scossi, dal momento che nascere, ascendere, decrescere, morire, non compongono una temporalità vissuta lineare (la "freccia del tempo"), ma sono dati come realtà simultaneamente presenti: "Ma cos'è questa storia di non poter morire, vivere, nascere, questa storia di restare là dove ci si trova, morenti, viventi, nascenti..." Alla stasi temporale corrisponde una stasi spaziale che ulteriormente riduce il soggetto a dimensioni di irrealtà o di nonesistenza, ovvero di una ripetitività che non garantisce nulla se non il fatto che "tutto quel che accade sono parole, e ancora parole che non fondano niente, ma tuttavia parole (o 'suoni', 'rumori') come superstite forma di essere".
Il restringimento progressivo di questo "spazio" abitato da un delirio vocale è l'unico dato certo dell'opera di Beckett, - e l'autore lo chiama "contraction" evocando dimensioni esistenziali di angoscia, di claustrazione, ma anche testuali, di scarnificazione e restringimento. Con grande forza evocativa il compianto Guido Neri così introduceva una silloge di testi dell'ultima fase: "Pulsazione aritmica di embrioni, larve o riflessi, dentro un cranio, un utero o un polmone; silenzioso crepitio fotoelettrico, oscillazione combinatoria, in una materia verbale che sembra mimare una densità subatomica". Ma per cingere più da presso il suo teatro, lo stesso Bertinetti non può non sottolineare come, sin dall'inizio, per Beckett la "costrizione" non valga come impedimento, bensì come paradossale occasione di libertà. Al proposito è emblematico il dramma giovanile "Eleuthéria" (in greco, "libertà"), dove non solo il protagonista cerca di liberarsi dalla morsa familiare, ma dove l'autore espelle per sempre e senza mezzi termini il famigerato "salotto" di casa borghese, che tanta parte aveva avuto sulla scena del teatro di fine Ottocento e di primo Novecento.
Se "Aspettando Godot" (1952) illustra, con straordinaria vigoria e risonanza, il celebre detto di Yeats - "La vita è l'attesa di qualcosa che non giunge mai" -, non è in quel grande esordio meno evidente il ricorso alla beffa e al grottesco: "Niente è più comico dell'infelicità". A questi elementi - che trovano il loro coronamento in "Finale di partita" - va aggiunto il fatto che Beckett, pur muovendosi in un "teatro di parola" (all'opposto di molte altre importanti vicende teatrali novecentesche), porta la parola al suo annientamento. Il linguaggio nega se stesso e la comunicazione "annuncia che non è più possibile alcuna comunicazione" (Adorno).
E se la "conversazione", pur ridotta a quella standard di un manuale di conversazione, sussiste ancora per qualche tempo, con "L'ultimo nastro di Krapp" essa scompare e cede il posto alla leggendaria "voce monologante". Monologo interiore o flusso di coscienza ripreso dall'amico Joyce, ma con l'introduzione di un medium - il registratore - che ben emblematizza la nuova realtà del Moderno. Al ricordo si sostituisce la registrazione; gli eventi sono bensì "incisi", ma nello stesso tempo divelti da ogni possibile elaborazione interiore.
In "Giorni felici", dopo l'eliminazione del dialogo, vi è la scomparsa del movimento; e già si profila la "voce" di quella Bocca che dominerà in modo orrifico (ricordando un po' la pittura di Bacon) in "Non io". Come osserva il curatore, qui il "teatro" ritorna alle origini greche, col significato, appunto, di "vedere". La situazione fondamentale della pièce viene vista: il senso è primordialmente visivo. Parallelamente, assume rilievo - nella genesi del testo - non tanto l'intreccio o la situazione, bensì l'immagine. Winnie semisepolta in "Giorni felici", le urne in "Commedia", i rifiuti di "Respiro", il cratere di suoni della Bocca in "Non io", il volto di "Quella volta", il su e giù di "Passi", la sedia e il gioco di luci in "Dondolo".
Nella fase dei 'dramaticules', la voce, martoriata, tace: il silenzio dell'immagine trionfa sulla parola ('Trio degli spiriti,... nuvole'...). Non a caso, Martin Esslin parla di "liriche visive" a proposito dei due ultimi lavori beckettiani: "Quad" e "Nacht und Träume", quasi che l'immagine poetica generativa fosse riuscita a liberarsi della parola per sempre. Quale sarebbe stato il passo ulteriore del grande drammaturgo? Non lo sapremo mai. Ma possiamo concludere con Bertinetti che quest'opera, radicale nelle sue parti e nel suo insieme, resterà "uno dei massimi esempi di comunicazione dell'esperienza nell'epoca della distruzione dell'esperienza".
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