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Colpisce una considerazione che Ferrucci inserisce nel prologo al suo saggio sul legame tra fortuna e potere nel Rinascimento: "A scrittura conclusa mi sono accorto che l'ardore che l'aveva sorretta aveva a che fare con il senso di contemporaneità che mi era stato trasmesso da ciò che leggevo". L'autore riconosce proprio nella fortuna ciò che segna "il punto di svolta rispetto a tutta una tradizione filosofica" provocando il crollo delle certezze dell'Umanesimo: l'uomo al centro dell'universo dei Ficino e dei Pico della Mirandola – un superuomo ante litteram e ottimista – comincia presto, infatti, a mostrare segni di stanchezza in un mondo non più guidato dal fato o dalla provvidenza. Questo senso di vanità si insinua a fondo nella cultura europea del tempo, alimentando per esempio il teatro elisabettiano e la filosofia di Montaigne. Ma a fornire il modello è soprattutto Machiavelli, la cui lucida analisi su destino, libero arbitrio e potere sfocerà suo malgrado in un proliferare, in letteratura, di personaggi cliché che ingannano e tramano. Ferrucci invece ripropone una lettura del Principe su basi etiche, ricordando lo spirito critico con cui Machiavelli utilizza immagini di decadenza e malattia; individua quindi un altro nodo cruciale, per un'interpretazione psicologica del potere, nel teatro di Shakespeare, i cui re si interrogano continuamente sul rapporto tra finzione e realtà. Un esempio fra tutti Macbeth, epigono del Principe per ambizione ma non per capacità simulativa: lo saranno più astutamente di lui i suoi avversari Malcom e Macduff, in un dialogo fatto di sottintesi, analizzato da Ferrucci in pagine di riflessione sul potere che sono tra le più interessanti del saggio.
Serena Corallini
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