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Ceronetti e Quinzio, due voci a dir poco singolari nel panorama culturale italiano. Il primo, ultraottuagenario, se ne va ancora in giro con ben incollato in testa un basco da bohemien da cui fuoriesce una canuta chioma ribelle, spargendo a destra e a manca scintille gnostiche e assestando, con il suo caustico scetticismo, micidiali sciabolate all'onnipervadente modernismo globalizzante. In un'epoca in cui anche l'arte è soggiacente alla tecnologia più sofistica, ha preferito dedicarsi, in controtendenza, tra un poema, un aforisma e una traduzione, ad un teatrino di marionette in cui s'intrecciano sarcasmo ed affabulazione. Una scelta decisamente emblematica di una visione che non intende rassegnarsi alla caduta mondana cui ci avrebbero relegato la malvagità e l'impostura di un demiurgo spacciatosi per dio. Il secondo, lunga barba da profeta, si dilunga fino alla morte (avvenuta prematuramente, a neanche settant'anni, nel 1996) in una continua, accorata, lamentazione, si macera, a metà tra Geremia e Giobbe, spingendo il proprio intimo «nella gola del leone». Accanito monoteista, apocalittico incallito, mette a ferro e fuoco la sua fede, ne prova la resistenza, la scaglia violentemente contro il muro del pianto e, insieme, la accudisce con tenerezza, preservandone la corolla. Manda al diavolo diciassette anni di lavoro sofferti come finanziere, si ritira in semiromitaggio in un paesino delle Marche in ardente lettura biblica sine glossa dando vita a quattro commentari adelphiani il cui linguaggio risulterà decisamente ostico sia ai roditori confessionalisti che ai teologi del progressismo esasperato. Due personalità così non potevano che incontrarsi e confrontarsi in un intensissimo epistolario protrattosi per quasi un trentennio, dal 1968 al 1996. Un libro denso, trasudante provocazione, minuziosamente curato da Giovanni Marinangeli, autore di un ricco e ben documentato apparato di note in appendice.
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