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recensione di Filoramo, G., L'Indice 1998, n. 1
Finalmente anche il lettore italiano può avere accesso all'opera di uno dei pensatori più singolari e suggestivi del nostro secolo. Se si eccettua, infatti, un'antologia di scritti concernenti il rapporto con Carl Schmitt ("In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt", Quodlibet, 1996), nulla della dispersa produzione di Taubes (i cui saggi più significativi sono stati raccolti in "Vom Kult zur Kultur" nel 1996), era a tutt'oggi tradotto in italiano. Nato nel 1923, la nomina del padre a Gran rabbino permette, nel 1936, il trasferimento a Zurigo della famiglia, che in questo modo sfuggirà allo sterminio, di cui rimasero invece vittime molti parenti. Diventato anch'egli rabbino nel 1943, il giovane Taubes studia filosofia e storia a Basilea e Zurigo. "Escatologia occidentale", la sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1947, dà inizio a una brillante carriera accademica, dapprima, per due anni, a Gerusalemme con Gershom Scholem, suo riconosciuto maestro, poi negli Stati Uniti e, infine, a Berlino.
Pensatore che sfugge a ogni rigida catalogazione, filosofo teologo esegeta, dominato da un modo di vivere irrequieto e mai sazio, "al confine fra ebraico e cristiano, là dove fa caldo e non si può fare a meno di scottarsi", per unanime testimonianza di coloro che hanno avuto la ventura di conoscerlo egli dava il meglio di sé nel dialogo, nel confronto polemico, nello sviscerare passionalmente temi e problemi in modo folgorante, con virtuosismi associativi e simbolici che tradiscono la frequentazione degli aforismi di Nietzsche e la passione per la citazione graffiante di Benjamin.
Ci si stupirà meno, di conseguenza, del fatto che il lavoro del 1947 sia rimasto il primo e ultimo suo libro. Come molti altri suoi interventi, infatti, anche "La teologia politica di San Paolo" è, in realtà, la trascrizione di un seminario che egli tenne, pochi mesi prima della morte, dal 23 al 27 febbraio 1987, alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg. Jan Assmann, egittologo a Heidelberg e con la moglie Aleida curatore dell'edizione tedesca, ebbe una volta a descrivermi la straordinaria, allucinata atmosfera che, per quattro giorni, di fronte a quell'uomo che si sapeva, e tutti sapevano, in fin di vita, si era creata tra i partecipanti, testimoni di una straordinaria resa dei conti di Taubes con la propria inquietudine intellettuale.
"Il tempo incalza": la frase iniziale del seminario può essere assunta a cifra della stessa produzione di Taubes, dominata e iscritta, come l'"Escatologia occidentale" insegna, nel problema escatologico. In certo senso, quest'opera e il suo eroe, come un avatar intellettuale dell'ebreo errante, incarnano uno dei paradigmi (e dei paradossi) della tarda modernità: appunto, l'attesa. Caduto il mito di una conoscenza che si trasforma in una logica di possesso, se non di distruzione, dell'altro e degli altri; al posto della tragedia dell'attesa, ma anche a differenza dell'attesa tipica di certi pensatori cattolici come von Balthasar (la cui "Apokalypse der deutschen Seele" del 1937, come ricorda giustamente Ranchetti nella sua illuminante introduzione, insieme all'escatologismo del teologo protestante Paul Althaus, è una delle "fonti" fondamentali del lavoro di Taubes), che si radica comunque nella fede parusiaca che il Messia è "già" venuto, l'attesa di Taubes, iscritta nella logica del messianismo ebraico, è l'"errance" allo stato puro, senza agganci nel tempo. Dunque, senza fissa dimora che non sia quella di un intelletto vigile fino all'estenuazione della crisi psichiatrica. Unico punto di riferimento: "la stella della redenzione", l'"eschaton* come "essenza" della storia, punto terminale e, nel contempo, iniziale, liminalità e cartina di tornasole in virtù della quale "la storia oltrepassa il proprio limite e diviene visibile a se stessa".
Dunque, l'attesa della fine, una fine che è, insieme, apocalisse - cioè disvelamento del mistero della storia -, sospensione del tempo e, dunque, della morte, arrivo del Messia e compimento della storia. L'affresco escatologico che Taubes disegna nel suo libro se ha certi aspetti datati, continua a colpire per il suo pathos profetico, per la profondità di certe intuizioni, ma soprattutto per l'anelito religioso che anima questo audace profilo, in cui gnosi e apocalittica si mescolano fino a confondersi. Il mondo, in quanto storia, è chiuso tra l'"Einst", l'Allora, dell'inizio e della fine, della creazione e della redenzione: non progresso rettilineo, dunque, ma alfa e omega che si richiamano reciprocamente.
Fin da quest'opera giovanile, politica ed escatologia si rivelano strettamente collegate: quando verrà il regno di Dio su questa terra, nella storia, svelandone il mistero e consumandone il tempo? È su questo sfondo, come lo stesso Taubes ha ricordato, che si costruisce l'incontro con Schmitt, anch'egli apocalittico, ma dall'alto, a partire dai poteri costituiti, e non dal basso, a partire dalla forza della sovversione, per un'apocalittica della rivoluzione. Per questo Paolo è rimasto, per l'ebreo Taubes, un punto di riferimento costante. Nel seminario di Heidelberg, una sorta di testamento spirituale, Taubes rilegge la posizione di Paolo, fariseo chiamato, al pari di Geremia, a gettare le fondamenta del nuovo Israele. Un problema politico domina il suo pensiero: contrapponendo alla divinità dei Cesari il nuovo regno del Messia creduto, egli scardina l'ordine esistente, ridefinendo i rapporti tra l'uomo e i suoi simili: non una chiesa pellegrinante, ma un regno dominante su di uno sfondo apocalittico e messianico. In questo modo, oltre a porsi come il vero fondatore del cristianesimo, Paolo si configura come colui che iscrive la salvezza del nuovo Israele nella salvezza di "pas Israel", di tutto Israele: dunque, continuità, non rottura, verso la propria eredità ebraica. Proprio, d'altro canto, questo radicamento orizzontale spiegherebbe la particolare fortuna di Paolo nella tradizione occidentale, tema della seconda parte del seminario. Nietzsche e Freud: ecco, per Taubes, ciascuno a modo suo, i veri "seguaci" di Paolo, almeno, del Paolo riscoperto da Taubes.
"Escatologia occidentale" si concludeva riconoscendo la passività dell'uomo, agìto da Dio nel mistero della storia. Al termine di questa caccia terrena a una "rivelazione", che gli appare voce di Dio che lancia fiamme, "fuoco che rischiara la radura tra Dio e mondo", perseguita prima di tutto e soprattutto sotto forma di esegesi del testo sacro, Taubes all'uditorio di Heidelberg kafkianamente ricorda quello che gli appare il vicolo cieco di ogni processo autoredentivo consumato nel chiuso della propria stanza: "È dall'altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi". In ogni caso, non esistono scorciatoie facili, nella visione profetica e apocalittica del pensatore tedesco: "La storia non è un apriori, è necessario aprirsi un varco, attraversarla", anche perché "il tempo incalza".
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