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Nel 1922, in The Waste Land, Eliot aveva dato espressione al consapevole disorientamento di un’epoca che, iniziatasi colla prima guerra mondiale, può dirsi duri tuttora e non si saprebbe meglio definire che col titolo di un volume dell’Auden, The Age of Anxiety, l’epoca dell’ansia. The Waste Land chiudeva il suo barbarico edificio con alcuni frammenti di poeti del passato, vestigia di una nobile e secolare tradizione di cultura, e con la dichiarazione: “Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine”. The Waste Land voleva essere insomma un edificio di bassa epoca deliberatamente eretto sull’Ultima Thule del pensiero europeo, proprio al limite della desolazione incombente che minacciava di travolgere ogni traccia d’una cultura secolare. Dall’introduzione di Mario Praz
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La scrittura è molto raffinata e ricercata, ma mai pomposa, a qualcuno può sembrare un po’ datata forse, però molto evocativa che dà al racconto un qualcosa di sospeso, a volte. I personaggi sono molto ben definiti, come definita è la natura nella quale ci si immerge durante la lettura; sembra di attraversare il ponte e scivolare tra le strade e i campi di grano di Cornwall Coombe. Alcune immagini sono così vivide che sembra di vedere un film, ed una riduzione cinematografica ne è stata tratta, a puntate, se non ricordo male.
Un capolavoro della poesia Moderna. Un ulteriore distanziamento dalle convenzioni stilistiche ma fortemente ancorato nella tradizione, nei Maestri. Un viaggio estremamente descrittivo attraverso una Terra Desolata che potrebbe essere il primo dopoguerra ma anche il tempo che viviamo noi. Una condizione umana più che storica. Leggere Eliot e apprezzarlo appieno richiederebbe una conoscenza enciclopedica. O uno di quei siti che spiegano verso per verso l'intera opera. Assolutamente consigliato
"Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine". Così Thomas Stearns Eliot conclude il suo poemetto "La terra desolata", una delle sue opere più importanti. Qui il poeta angloamericano giunge ad una delle conclusioni più pessimiste che sia stato dato di leggere: per l'Autore, la vita è la morte, e la vita è ridotta al trinomio, ontologicamente inutile, nascita/copula/morte. E forse con quest'opera, magistralmente tradotta ed introdotta (ed annotata a margine) dal grande Mario Praz, Eliot, che attraversa l'inferno dantesco con l'ironia di un dandy decadente e la consapevolezza che prima di lui ci sono passati anche i poeti maledetti come Rimbaud o Lautréamont, comunica che la poesia - forse meglio o forse ad un altro livello rispetto alla fede - può fungere da pagliuzza da afferrare prima che affondi questa malridotta nave fenicia sulla quale ci è capitato di navigare.
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