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Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo - Mark Juergensmeyer - copertina
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Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo - Mark Juergensmeyer - copertina
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Descrizione


Juergensmeyer esplora l'universo oscuro e inquietante delle figure dei "terroristi per Dio", cioè di coloro che sono pronti a uccidere (spesso anche a farsi uccidere) in nome della fede, anzi delle tante diverse fedi. Dopo tanto parlare della violenza del fondamentalismo islamico, questo libro ci riporta, nelle parole degli stessi terroristi e con il racconto delle loro vite, a uno scenario complesso nel quale non c'è religione che non venga usata a pretesto della lotta politica.
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Dettagli

2
2003
21 febbraio 2003
XVII-340 p., ill.
9788842068204

Valutazioni e recensioni

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Pier Alfonso Dalle Donne
Recensioni: 5/5

Le crociate, la cristianizzazione forzata delle americhe, il colonialismo in nome della civilta' cristiana e tanti altri eventi che nel libro Mark Juergensmeyer elenca, ci ricordano bene tutte le nostre tragiche mancanze. La sobrieta' riguardo a noi stessi dovrebbe altresi' renderci indulgenti verso i limiti degli altri, spingendoci all'ascolto e alla comprensione delle ragioni di coloro che-per quanto diversi da noi-sono comunque oggetto dell'amore del medesimo unico Creatore.I cristiani, proprio in quanto discepoli di un Maestro che subi' un processo ingiusto, venne torturato e ucciso in modo crudele, dovrebbero essere le sentinelle poste di guardua affinche' simili efferatezze non si ripetano mai piu'

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Ale
Recensioni: 5/5

I numerosi esempi di terrorismo religioso a cui si fa riferimento in questo libro hanno dimostrato che la violenza della religione e' stata, troppe volte, ferocemente reale.

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Fabrizio Porro
Recensioni: 5/5

Dopo tanto parlare della violenza e del fondamentalismo islamico, questo libro, brillante ed intenso, ci riporta con le parole degli stessi terroristi, a uno scenario complesso nel quale la religione viene usata a pretesto della lotta politica. Gli attentati dei martiri Shahīd dell' 'Islam contro l'intero Occidente per raggiungere prontamente le 72 vergini Uri che, in Paradiso, bramose e bramate attendono i kamikaze. La metà dei trenta piu' pericolosi gruppi terroristici al mondo pretende di avere le proprie motivazioni nella religione. Ma come può la Parola di D-o avallare atti di terrore contro esseri umani ? Come può la violenza diventare un dovere sacro ? Queste sono le domande al centro del libro- sereno, lucido, acuto e vibrante- di Mark Juergensmeyer. Quello che impressiona è il suo sforzo di parlare agli ex terroristi e di comprendere la logica che li guida, fà luce sugli spazi oscuri da cui sorge il terrore.

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Voce della critica

La tragica spirale di atti terroristici, che sembra accompagnare come un'ombra la crescita dei processi di globalizzazione, ha moltiplicato gli studi del fenomeno. Se molto si è riflettuto sulle ipotetiche cause economiche, politiche, sociali e psicologiche (quando non psichiatriche, almeno a livello individuale) del fenomeno, cercandone antecedenti storici e impostando analisi comparative alla ricerca delle logiche comuni soggiacenti, meno si è riflettuto sulla dimensione religiosa, che pure costituisce una componente non trascurabile, se si pensa ai numerosi gruppi terroristici che, dall'Irlanda alla Palestina, dagli Stati Uniti all'India al Giappone (l'Europa continentale sembra, da questo punto di vista, costituire un'isola, si fa per dire, relativamente felice: ma per quanto?), uccidono "in nome di Dio".

Il libro di Juergensmeyer, direttore del Dipartimento di studi globali e internazionali dell'Università della California, ha l'indubbio merito di affrontare di petto una questione così delicata. "Terrorismo", come tutti gli -ismi, è un prodotto della modernità, più precisamente del Terrore rivoluzionario. Una volta ammesso che lo scopo precipuo - banalità non così scontata - è quello di creare (il) terrore, quale è la parte recitata, in questo drammatico psicodramma collettivo, dalla religione?

L'autore affronta questo argomento "esplosivo" non solo con grande competenza e lucidità intellettuale, ma anche con profonda passione umana, come dimostra la sua "osservazione partecipante, fondata su di una serie di interviste illuminanti con protagonisti a vario titolo dei cinque gruppi esaminati nella prima parte del libro (gruppi cristiani americani antiabortisti; destra radicale ebraica; terroristi islamici; sikh; buddhisti del gruppo giapponese Aum Shinrikyo), nello sforzo ammirevole di recare il suo mattoncino a quell'edificio utopico che è la costruzione della kantiana "pace universale".

Che cosa differenzia il terrorismo religioso dalle tante forme del terrorismo non religioso? "La particolarità del terrorismo religioso sta nel fatto che è quasi esclusivamente simbolico, messo in atto con metodi altamente drammatici. Inoltre, queste inquietanti esibizioni di violenza sono accompagnate da forti rivendicazioni di giustificazione morale e da un tenace assolutismo, caratterizzato dall'intensità dell'impegno degli attivisti religiosi e dalla portata ultrastorica dei loro obbiettivi". Di questa tesi merita rilevare due elementi: la dimensione simbolica e l'assolutismo della risposta. Uno degli intervistati, presunto responsabile dell'attentato del 1993 al World Center, ribatte a un certo punto al suo intervistatore: "L'anima della religione, ecco cosa vi manca".

Juergensmeyer, a ragione, si sofferma sulle motivazioni ideologiche, di matrice religiosa, soggiacenti all'azione terroristica, da lui riassunte nella ripresa di un tema mitico-simbolico: quello della guerra universale, ma sottolinea ugualmente, sulla scia soprattutto di Bourdieu, le ragioni "pratiche" di questa scelta. Per riprendere, anche in questo caso, le affermazioni di un terrorista: che cos'è una bella macchina senza benzina? In altri termini: la dimensione religiosa del terrorismo consiste nella sua capacità di versare un carburante particolare, in grado di "accendere" il motore dell'azione. Per procurarsi questo carburante il terrorismo religioso fa ricorso, secondo Juergersmeyer, alla nozione mitico-religiosa di guerra universale, che fornisce il copione destinato a essere recitato nelle performance violente dei vari "guerrieri di Dio", rendendo possibile l'attivazione di scenari come il martirio, il sacrificio, la battaglia finale tra le forze del Bene e quelle del Male, in cui la violenza religiosa - non necessariamente legata a una fede di tipo monoteistico, come dimostra il caso dei sikh e quello del buddhismo - trova alimento, ma anche un luogo mitico-simbolico tradizionale per attivarsi attraverso la costruzione e la satanizzazione del nemico.

Su questo sfondo si comprendono meglio anche le funzioni psicosociali che l'autore esamina negli ultimi due capitoli. In genere, i gruppi di terrorismo religioso presi in esame escludono o marginalizzano le donne, configurandosi come gruppi iniziatici di giovani militanti che stabiliscono tra di loro, secondo modelli arcaici di patriarcalismo radicale, vincoli particolari di affetto e solidarietà: "Questi movimenti di monaci cowboy hanno in comune il fatto di essere composti da giovani maschi antiistituzionali, nazional-religiosi, razzisti e sessisti (...) La loro esperienza di marginalità nel mondo moderno è vissuta come una specie di disperazione sessuale che li porta ad atti violenti di potenziamento simbolico". I gruppi permettono così a questi giovani, spesso socialmente emarginati, di ricuperare forme di potere e di autogiustificazione religiosamente fondate, contribuendo a fare della religione un fattore di onore e legittimazione e, nel contempo, ad accrescere l'importanza della religione in quanto ideologia di ordine che sostiene la vita pubblica.

Quest'ultimo punto costituisce, a ben vedere, la tesi principale del libro. Sulla scia di un numero crescente di studi, anche l'autore contribuisce a sottolineare l'importanza che la religione torna ad avere, sullo sfondo dei destrutturanti processi di globalizzazione che hanno messo in crisi le forme di autorità e potere statale moderne, sulla scena pubblica. I terroristi religiosi sono infatti accomunati, in negativo, dal rifiuto dei valori progressisti e delle istituzioni politiche laiche tipiche della modernità, in positivo, dall'aspirazione a ricuperare forme più impegnative e stimolanti di vita religiosa, che essi immaginano facciano parte dei primordi della loro religione, restituendole uno spazio centrale, anzi decisivo, nella vita pubblica. Anche se in forme aberranti, il criptomessaggio che questi gruppi lanciano, secondo Jurgenmeyer, costituisce per l'Occidente una sfida profonda che contiene una critica sostanziale alla politica e alla cultura laica e postilluminista mondiale.

Le conclusioni del libro prospettano una tesi che merita di essere discussa e approfondita. La violenza religiosa ha tratto alimento dalle tensioni sociali di questo momento storico, ma anche dalla violenza pubblica che sempre più scorre nel sangue delle società occidentali. Come fare a recidere il cordone ombelicale tra violenza e religione? Ritornando a riconoscere il ruolo pubblico che la religione può svolgere, non nelle forme anestetizzate della rousseauiana religione civile, ma in quelle più robuste di una religione che, temperata dalla razionalità e dal rispetto delle regole e dei valori moderni, contribuisca a ridare vitalità ed energia alla vita pubblica e, nel contempo, a costruire un ordine etico in grado di affrontare i tempi, privi ormai di un solido ancoraggio morale, in cui viviamo.

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