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Una lettura forte e difficile, ma al tempo stesso illuminante, se si va oltre la vicenda privata e si cerca di leggere in filigrana il significato più profondo. Percy Shelley ci propone, in toni gotici, la storia della famiglia Cenci, una storia fatta di orrori, omicidi e crimini scabrosi, ma questi ultimi non vengono mostrati direttamente. Ciò che Shelley mette in scena sono le passioni oscure e le ferite della psiche, il male assoluto e i disperati tentativi di resistenza e opposizione. Per questo è anche e soprattutto una forte denuncia contro il potere e la corruzione, una corruzione pervasiva che non può non contaminare anche l'eroina, portandola alla rovina. Una delle domande più interessanti con cui Shelley ci lascia è sicuramente questa: "ma se nessuno, escluso me, conosce i miei trascorsi, perché mai dovrebbe preoccuparmi il disprezzo del mio stesso cuore?" Una riflessione importante e sempre attuale, a mio parere. Fino a che punto possiamo spingerci prima di dover fare i conti con noi stessi? Prima che il nostro passato torni a tormentarci? La tragedia ci mette davanti a un personaggio impenitente incarnazione del male assoluto, apparentemente incapace di porsi una domanda simile e deciso a percorre un sentiero di delitti progressivamente più agghiaccianti, ma anche personaggi che camminano su un filo, incapaci ancora di precipitare da un lato o dall'altro. Lo consiglio assolutamente.
Recensioni
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SHELLEY, PERCY BYSSHE, The Cenci. I Cenci, Mursia, 1991
SHELLEY, PERCY BYSSHE, Hellas. Dramma lirico, Lubrina, 1991
recensione di Rognoni, F., L'Indice 1992, n. 6
In Inghilterra, i primi decenni dell'Ottocento segnarono l'età dell'oro della critica shakespeariana (Coleridge, Hazlitt) e furono ricchi di straordinari interpreti (fra cui Edmund Kean, che Byron defin "un trionfo della mente sulla materia, non avendo altro che volto ed espressione"), ma non produssero nessun grande drammaturgo. Fra le ragioni della crisi, gli storici annoverano l'avvento di un pubblico numeroso ma sempre più rumoroso e grossolano, la scarsezza dei teatri con patente ufficiale e le strette maglie della censura, oltre al fatto - oggi abbastanza sorprendente - che, nel trentennio 1800-30, la narrativa e la stessa poesia potevano rendere ben più della scena. Così, anche se (con l'eccezione di Blake) tutti i maggiori poeti romantici scrissero drammi, Byron fu nel comitato direttivo del Drury Lane e "Remorse" (1813) di Coleridge ebbe ventisei repliche, nessuno di loro conobbe un vero successo teatrale. Come noto, la poesia romantica tende alla "soggettivazione": la sua è una voce dalle infinite modulazioni, ma che difficilmente sa moltiplicarsi e immedesimarsi. Del resto, è questo il periodo in cui definitivamente il dramma acquista una doppia vita, come (potenziale) rappresentazione, e come pura letteratura, teatro mentale. Genere squisitamente romantico fu dunque il "dramma lirico", di cui Shelley (che non a caso fu il primo poeta inglese a tradurre frammenti del "Faust" di Goethe) produsse il capolavoro, "Prometeo liberato" (1819, trad. di R. Piccoli, Firenze 1924), e l'affascinante, se pur diseguale, "Hellas" (1822), un poema a più voci modellato sui "Persiani" di Eschilo, ispirato da inattendibili notizie sulla guerra di liberazione greca contro l'impero ottomano, e notevole soprattutto per gli splendidi cori. Dinanzi all'efficace traduzione di Cialfi (la prima del secolo) ci si chiede se il testo a fronte non sia un vizio perverso della nostra editoria (i francesi, ad esempio, l'hanno molto meno): può darsi, eppure qui ne sentiamo la mancanza...!
"I Cenci" (1819) è un'eccezione a quanto è detto sopra: Shelley scrisse la parte del Conte per Kean e quella di Beatrice per l'altra star del momento, Eliza O'Neill. Rappresentato per la prima volta nel 1886 (l'allestimento della Shelley Society non piacque a Shaw), e con una certa regolarità nel Novecento, il dramma è ormai apprezzato non solo come poesia (Mary Shelley lo prediligeva fra le opere del marito), ma anche per le sue caratteristiche teatrali. Swinburne lo chiamò l'unico grande dramma "elisabettiano " scritto dai tempi di Elisabetta: eppure, concepito "all'ombra del divin marchese", il conte Cenci è un "villain" certo più simile allo Iago di Verdi che a quello di Shakespeare. Facendo del Conte (che la tradizione vuole ateo) un perverso cattolico, Shelley inscena una serrata vicenda di violenza incesto parricidio inganno ed esecuzione, che è anche tragedia metafisica, lo specchio implacabile e assurdo d'un universo retto da un sadico, impietoso Dio Padre (significativamente, Artaud vi rinvenne i germi del suo "Théƒtre de la cruauté"). La possente versione poetica del De Bosis (1916) non rispettava la "sobrietà di dizione" lodata dal Cecchi: questa del Gori, in prosa e affidabilissima, solo raramente cade nell'opposto difetto della parafrasi.
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