Louisa May Alcott dedicò (per gli amanti delle sorelle March, forse, “sacrificò”) buona parte del suo talento letterario a inventare trame violente e morbose. Lo fece per necessità economica (erano ben pagate dalle riviste), per indole femminista (le protagoniste dei suoi racconti sono donne che gli uomini li usano, in barba al maschilismo vittoriano) e per divertimento (era appassionata lettrice di storie gotiche e anche la cronaca nera del tempo la incuriosiva). Alla giovane scrittrice di Concord – piccola cittadina del Massachusetts assordata dagli echi puritani della troppo vicina madrepatria inglese – non mancavano i motivi per cercare rivincite. Il ferreo moralismo e il maschilismo che si annidavano dietro una facciata di buone intenzioni progressiste avevano smorzato sul nascere la rincorsa al successo letterario di Louisa, che si definiva “una triste vittima delle rispettabili tradizioni di Concord”. Stanca di “sfornare letteratura amena come pappa morale per i giovani”, prese a scrivere per suo diletto opere minori imbastendo trame da far invidia a Stephen King. Droghe, ipnotismo, frodi, patti col diavolo, persino un genio del male che manipola vite umane come se fossero pedine su una scacchiera. Alcuni romanzi furono pubblicati sotto pseudonimo, alcuni erano troppo audaci perfino per il più coraggioso dei tabloid dell’epoca, il Frank L Leslie’s Illustrated Weekly, e non sono mai stati stampati. Scrisse racconti gotici e thriller psicologici fitti di immagini di vendetta e violenza e spesso disseminati di elementi soprannaturali in clandestinità, usando un altro nome, fino al 1868. Ma, raggiunto il successo con storie permeate di buoni sentimenti, tutto questo finì. A. M. Barnard non sarebbe stata d’accordo. Se invece di un incorporeo pseudonimo fosse stata una scrittrice in carne e ossa non avrebbe accettato di essere messa da parte per lasciare spazio a un’interminabile saga popolata da ragazzine e ragazzini perbene. Non per niente la scrittrice, nel 1862, annotava nel suo diario: “Anche quando appaiono sciocchi, i miei racconti non sono male!”.
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