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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 1996
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Al picco più esaltato raggiunto da questo testo, fin dentro i suoi intarsi e i suoi più splendidi merletti dialettici, non è folle definirlo un gigantesco trattato sulla natura umana. Una corte di uomini ad omaggiarne uno, ricchissimo, e soprattutto buono a livelli di impensabile prodigalità: "C'è un vivente che non sia corrotto o corruttore? C'è un morto che non si sia portato nella tomba un calcio, regalo di un amico? Gli uomini chiudono la porta al sole quando declina". E' quello che accade. Timone è un generoso, si fida di chi ha attorno, non sente strisciargli sulla pelle la miseria che lo accosta, il calcolo basso, la ruffianeria complimentosa, "cuori bolsi, amicizie di sterco, gambe pieghevoli", giacché "è un castigo che i prodighi non abbiano occhi anche sulla nuca". Così quando finisce povero e sulla paglia tutti lo abbandonano; ma lì egli dimostrerà il suo valore, la sua grandezza, saper vivere da re anche i più accaniti morsi dell'indigenza: "La miseria accettata vive più dell'agiatezza malsicura e arriva prima al suo compimento. L'una è sempre lì a ingurgitare, non mai sazia; l'altra è sempre soddisfatta. La ricchezza scontenta è triste e scomoda e più in miseria della miseria, contenta di quello che ha". Sembra troppo facile uscirsene con parole tanto ferme, radicalità estreme a tagliare i destini. Ma Signori, siamo a casa di Shakespeare, e ogni misura e tatto sono ospiti di seconda fila, ogni veste cade e l'anima si mostra nuda, al sole della sua verità, pavida nel caso o degna in ogni sua piega, a seconda dei cuori. Un re si riduce a mendicante, ma riesce ad essere re anche in questa seconda vita. Capendo chi h incontrato e rifiutando ogni rientro ad Atene. Vince lo straccione. Varrà solo nel cosmo della parola forse, ma succede. Poi i vincenti faranno la loro strada lo stesso. Ma di cervelli uguali a vicoli chiusi è piena la terra.
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