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"Sono sempre i valori a fomentare il conflitto e a tener viva l'ostilità". In questa frase si racchiude il cuore della conferenza tenuta da Schmitt nel 1959 e quindi ampliata da una lunga introduzione in un'edizione del 1967. E qui si racchiude l'estremo ragionamento schmittiano, così come si svolse dalla seconda guerra mondiale in poi. Perché a una frase del genere si addice l'aggiunta di un punto interrogativo e non il taglio netto dell'asserzione categorica. Certo che Schmitt riprende esplicitamente l'intuizione weberiana, peraltro corroborata dall'"inutile massacro" della Grande guerra. Ma in Weber si avverte l'urgenza e l'acuta nostalgia di una critica dei valori che sia costruttiva e che freni il disincantamento del mondo. Nello Schmitt del secondo dopoguerra, la presenza di una simile istanza ricostruttiva pare assente. Proprio questo scritto porta più di altri a cogliere il lato decostruzionista della riflessione dell'ultimo Schmitt, qui più cinico dell'Heidegger che ancora corteggia l'Essere quale estremo ancoraggio e assai più prossimo alla fase volterriana del Nietzsche di Umano, troppo umano. Vi è lo stesso uso corrosivo di un intelletto affilato da una smisurata rabbia scatenata contro l'esistente. Ma è proprio sulla questione dei valori, e sulla critica al tentativo postbellico della giurisprudenza tedesca di dare solidità e legittimità non meramente strumentale alle rinate istituzioni democratiche, che torna urgente interrogarsi sul significato epocale dell'avventura hitleriana. Non condivisibile è quanto Franco Volpi scrive nella postfazione all'edizione adelphiana della Tirannia dei valori (2008): leggere questa pagine "come fossero anonime". Non è questo il caso: Schmitt omette un periodo cruciale nella storia della cultura europea cui lui contribuì. Proprio per comprendere occorre non nascondere.
Danilo Breschi
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