Dagli anni settanta e per almeno un decennio il Partito comunista italiano costituì l'oggetto privilegiato dell'interesse di storici e politologi stranieri. A ciò contribuivano la sua eccezionale influenza politica, la complessità della sua articolazione nel tessuto della società italiana e, last but not least, l'originalità di una strategia del potere a cui la definizione di "via italiana al socialismo" stava forse stretta, proprio perché i suoi capisaldi investivano una serie di nodi comuni per il movimento operaio di molti paesi europei occidentali. Quest'ultimo aspetto in particolare attrasse l'attenzione di Donald Sassoon, destinato ad affermarsi nel mondo come uno degli storici più autorevoli (e più piacevolmente leggibili), che vi dedicò alla fine degli anni settanta la sua tesi di dottorato, pubblicata prima in Italia (da Einaudi nel 1980) che in Inghilterra. Il libro viene oggi riproposto senza alcuna variazione nel testo, con l'aggiunta di una nuova acuta prefazione dell'autore e con l'introduzione lusinghiera che Eric Hobsbawm aveva premesso all'edizione inglese. È cambiato il titolo, nel quale al nome di Togliatti (che resta il vero protagonista del libro) non è più associata "la via italiana al socialismo", ma la costruzione del partito di massa. Un cambiamento che può dirsi giustificato, perché è proprio questo, dell'eredità lasciata dal leader comunista, l'aspetto che ha resistito più a lungo nel tempo, sebbene Sassoon stesso noti, forse con una punta di autoironica amarezza, che il libro, "scritto per spiegare che cosa stava dietro la storia di un partito di un successo", racconti ai lettori di oggi "gli antefatti di un interessante fallimento". Ma anche un titolo che non riflette del tutto il contenuto e l'intento del libro. Questo infatti si era voluto presentare nel 1980 come un gesto polemico nei confronti della cultura politica anglosassone: la quale, fortemente influenzata dalla sociologia funzionalista e succube di una visione del partito politico come puro strumento di organizzazione e di mediazione, tendeva a ritenere che si potesse esaminare la sua storia prestando scarsa attenzione al suo programma. Sassoon dichiarava invece esplicitamente di voler scrivere la storia della linea politica di un partito: era una scelta certo influenzata dall'approccio allora prevalente negli studi italiani sul Pci, ma che s'inseriva in quel filone con caratteri di fresca originalità, tanto che il libro si legge ancora con interesse e profitto. Quel dibattito appare inevitabilmente ricoperto dalla patina del tempo: ma in fondo quando Sassoon, individuando i punti fermi della proposta strategica del Pci, coglieva insieme lucidamente gli opposti pericoli che la minacciavano, toccava nervi tuttora scoperti per la sinistra italiana. Parlava infatti da un lato del rischio di "ritirarsi in un 'castello della purezza'", a prezzo di una sua scomparsa o di un suo forte ridimensionamento come forza politica determinante; dall'altro di quello di "acquistare una legittimazione a lungo ambita, ma pagando il prezzo di una trasformazione in 'partito di ricambio della borghesia'". Magari, vincendo l'istintiva ripulsa per questa desueta terminologia classista, qualcuno che nel gruppo dirigente del Pd legga ancora libri di storia potrebbe chiedersi se de te fabula narratur. Aldo Agosti
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