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Sicuramente originale è l'impostazione, con la stessa storia vista e raccontata dai tre personaggi (la vittima, l'assassino e l'ispettore di polizia) tanto che il testo potrebbe benissimo essere la sceneggiatura di un film. Ambientato nella campagna inglese subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, la scrittura scorre colta, forbita ed un po' distaccata. A dire la verità il romanzo cresce di livello via via che avanza e la prima parte - quella della ragazza pura ed anacronisticamente troppo ingenua - risulta forse noiosa, confermando che il "bene" in fondo non è interessante, lo è molto di più il "male" e la storia vista dall'assassino comincia ad essere più emozionante, per culminare con l'ispettore i cui ritmi sono incalzanti, come le indagini di Barnaby o di Montalbano. Un po' di puritanesimo vittoriano sparso qua e là, ma siamo in Inghilterra e bisogna accettarlo. Ultima nota sul titolo: perché cambiarlo dall'originale? Era "I protagonisti" ed era preciso e si capiva subito tutto; "Torno presto" è banale ed a chi si riferisce? All'ispettore di Scotland Yard che non vede l'ora di concludere le indagini?
Chi ha scritto un libro come questo doveva essere un bacchettone terrificante, ma anche un grandissimo scrittore. Al di là dei pregi strettamente letterari, ciò che resta maggiormente impresso in chi legge è il personaggio della bella Olwen, una ragazza abbastanza comune e perfino un po' limitata, ma della quale è impossibile non innamorarsi. Ma, come tante altre ragazze, il suo destino precipita appena finisce preda di un individuo che non è degno di farle neppure da tappeto. Mi è venuto in mente De Saint-Exupery e certe sue considerazioni di "Terre des Hommes", riguardo le conseguenze della lunga attesa dell'amore eterno in certe ragazze speciali, simili a principesse: a un certo punto non si riesce più ad aspettare, ci si mette con il primo imbecille che capita, "e l'imbecille si porta via la principessa, in schiavitù". Qui (ma è successo anche in tanti altri casi reali) l'imbecille è riuscito a fare anche di peggio. Senza entrare in un discorso sui valori più profondi, forse perfino l'autore si rende conto che se Olwen fosse stata un po' meno virtuosa, magari avrebbe avuto una vita migliore e soprattutto una fine diversa. Meno male che la condizione femminile sta cambiando.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)
recensione di Cases, C., L'Indice 1991, n. 9
Il compianto Sciascia aveva una straordinaria capacità di fiutare nella letteratura del passato capolavori trascurati, consigliandone la ristampa all'amica Elvira Sellerio.
Un caso è quello del giallo (o antigiallo) "La fine è nota" di Geoffrey Holiday Hall: un semplice giallo Mondadori scovato per caso in una stazione di provincia e che risplende dopo tanti anni come oro nel letame. Questo romanzo di Barlow era già uscito nel 1956 da Longanesi e qualche anno dopo da Mondadori. Non si può dunque dire che non avesse babbo e mamma al di fuori di un nome, come nel caso di Hall, eppure come in questo l'editore dichiara di non saper nulla dell'autore, che potrebbe saltar fuori quando uno meno se l'aspetta e reclamare i diritti. Anche qui si tratta di qualche cosa di più di un giallo, e anche di più di un romanzo prospettico a più voci come ne scrivono talvolta Sébastien Japrisot e altri che si ispirano al Kurosawa di "Rashomon*.
Poiché il prospettivismo non serve qui a relativizzare la verità, a far sorgere dei dubbi sulla possibilità di catturarla; anzitutto converge a fissarla in modo indiscutibile e irrevocabile. Le tre sezioni corrispondono a tre punti di vista: quello della vittima, la ragazza gallese inurbata, Olwen, sana di corpo e d'anima, fidanzata con un giovane caduto nella seconda guerra mondiale, poi innamorata di un commesso viaggiatore, seduttore professionale, che le promette il matrimonio ma la uccide quando apprende che è incinta, credendo di essere al di sopra di ogni sospetto; quello del commesso viaggiatore, che tiene scrupolosamente nota delle sue conquiste, anche dell'ultima che sfocia nell'omicidio; infine quello del commissario di polizia incaricato dell'indagine. L'ultima parte occupa da sola la metà del volume, ciò che autorizza a inserire il libro nel genere giallo, ma l'autore vuole che il lettore sappia già tutto prima, perché come Dostoevskij intende sottolineare il rapporto tra delitto e castigo, rapporto che affonda le sue radici in un mondo anteriore al giallo propriamente detto, quello della morale e della religione, mentre già Poirot spreme qualche lacrima sulle vittime, ma soprattutto esulta per la vittoria delle sue cellule grigie e per quella dell'ordine sociale turbato dalla delinquenza.
Barlow fa invece del suo meglio per isolare i rappresentanti del bene e del male di fronte al conflitto metafisico. Ciò determina anche il cambiamento dei moduli narrativi.
La prima parte, salvo qualche pagina del diario di Olwen, è narrazione oggettiva con viva partecipazione dell'autore; la seconda, cioè la versione dell'assassino, è un diario che riflette tutta la sua perversità, con cui evidentemente non vogliono avere a che fare n‚ l'autore n‚ il detective, al quale la lettura del diario risolverebbe tutti i problemi (ma lo scopre solo quando ha individuato l'assassino, mentre la Provvidenza gli fa scoprire presto il diario della ragazza, poco utile all'indagine perché l'uomo ha nascosto tutti quei dati che potevano individuarlo, ma utile per esaltare la virtù della vittima). Infine la terza parte ci presenta l'angelo vendicatore in azione. Egli rappresenta più che mai il dover essere di fronte all'iniquità dell'esistente; ha una famigliola che impersona ciò che Olwen e il commesso viaggiatore avrebbero potuto realizzare. In fondo anch'egli era un uomo forte e intelligente che avrebbe potuto testimoniare della bontà della Creazione. Invece come Nietzsche e Raskol'nikov si è convinto che Dio non esiste e quindi tutto è lecito.
Si è gridato da molte parti al capolavoro ignorato, e infatti ci siamo molto vicini. L'impostazione metafisica ridà sostanza al giallo, lo sottrae alla banalità e lo rimette nella tradizione che va da Dante a, appunto, Dostoevskij. L'effetto Raskol'nikov funziona ancora e l'ultimo dialogo tra il commissario e l'assassino, in cui entrambi scoprono le loro carte ideologiche, è all'altezza di quelli tra Porfirij e il protagonista del romanzo di Dostoevskij (il titolo originale di questo di Barlow, molto più calzante di quello della versione italiana, è "Il protagonista"). Tuttavia c'è qualcosa che non funziona. Dante, e ancora Dostoevskij, credevano nella teodicea, Barlow forse anche, ma in un'epoca che non ci crede più. Per quanti contorcimenti acrobatici facciamo, fino alla strana idea di Hans Jonas per cui Dio è 'in fieri', quindi si potrà considerare responsabile di Auschwitz solo dopo che avrà raggiunto la maggiore età, i teologi ricorrono alla teodicea solo per amor di firma. Raskol'nikov di fronte al delitto individuale doveva confrontarsi solo con i massacri artigianali dello zar. Ma Barlow scrive poco dopo la seconda guerra mondiale e per quanto non si identifichi con essa sembra avere simpatia per i buoni soldati e antipatia per il commesso viaggiatore, che considera anche la guerra come una scala verso l'autoaffermazione, vantandosi di quel che non ha fatto. Monsieur Verdoux aveva gridato ai giudici l'impossibilità di commisurare i suoi delitti a quelli dei generali e degli uomini politici. Barlow se ne guarda bene, per lui la lotta si svolge al di fuori della società, che è quella che è. Il romanzo giallo nasce su questa ipotesi e per questo è un genere tipicamente protestante. Le poche eccezioni, come il padre Brown di Chesterton, avrebbero chiesto a Barlow se per avventura anche il commissario nella sua presunzione di giudice inesorabile non pecca d'orgoglio e non è quindi più vicino a Satana che a Dio. Non si fa male a vedere in un seduttore di provincia "il protagonista " e nel suo castigo l'intervento di una teodicea che avrebbe potuto trovare migliore applicazione altrove? Giustamente gli autori di gialli ordinari ammazzano un mucchio di gente senza pensarci troppo, sanno che in confronto ai grandi massacri della guerra, della mafia o della droga sono quisquilie. Eppure lo sono e non lo sono, ed è bene che a ricordarcelo siano bei romanzi come questo, che senza l'ondata di religioneria seguita al crollo del comunismo non avrebbe costituito un successo postumo nonostante gli encomiabili sforzi di Sciascia e Sellerio.
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