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Nicola Gardini ha scritto un centinaio di poesie, pressato dall'esigenza di comporre un omaggio in versi in onore e difesa della traduzione. Nella nota finale così argomenta la sua arringa poetica: "Tradurre si fa, è possibile, e va capito nella sua complessità umana, artistica e civile, e nella sua bellezza. Non ci sono, per me, schemi, griglie, ipotesi, ma solo prassi e stupori, e una molteplicità di punti di vista". Si traduce per amore, per volontà di conoscenza, con meraviglia nei riguardi della bellezza: "Io non ho lingua, io sto all'erta, / A bocca aperta, / Come i bambini quando nevica / O come il pesce". Si traduce per riempire i propri vuoti, per colmare le mancanze, per arricchirsi emotivamente:"Proprio non so la sete di cui vive / Questo mio cuore vuoto e, come il bruco / Che ha già finito il filo, ecco, traduco". E Nicola Gardini ha tradotto tanto, scrittori antichi e contemporanei, greci-latini-francesi-tedeschi e soprattutto anglosassoni; incontrando i suoi poeti nei libri e di persona, mettendosi in competizione con altri traduttori, rivendicando orgogliosamente la legittimità artistica dell'interpretazione soggettiva, difendendo l'artigianalità raffinata del suo lavoro dai boriosi criticismi accademici. Ma anche proponendo un aspetto ludico e leggero della traduzione, difendendo l'uso della tanto bistrattata rima, e contestando il luogo comune dell'isolamento del traduttore: "La gente crede che tradurre / Sia un lavoro solitario:/ Tu e il dizionario. / Ma se è il massimo della compagnia!" Insomma, questi versi di Gardini recitano una dichiarazione d'amore a un mestiere ingrato e appagante, duro e generoso, ingordo e delicato, come risulta evidente da quest' esempio:"Per certi il paradiso è luce, / Per altri leggere da mane a sera.../ Per me la beatitudine vera / E' un posto dove si traduce".
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