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Il tremaio. Note sull'interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie
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1 gennaio 1986
100 p.
9788877660039

Voce della critica


recensione di Corti, M., L'Indice 1986, n. 8

Il volume di cui si parla raccoglie gli interventi su "Libera nos a Malo" di Meneghello che ebbero luogo lo scorso anno per iniziativa dell'Assessorato alla cultura del Comune di Bergamo all'interno della rassegna locale "Uno scrittore ed il mondo del suo dialetto". Cominciamo dal titolo. Cosa vuol mai dire "Tremaio" ? si domanderà il lettore. È Meneghello stesso a spiegarcelo là dove nel libro "Pomo Pero" commenta un costume familiare legato alla frase dialettale "dopodoman vien el tremaio": pronunciando le due parole dialettali tre maio (tre maggio) come una sola, quest'ultima viene ad evocare "qualcosa che trema nel profondo, una specie di terremoto metafisico" dove paura e gioia mescolandosi parossisticamente possono dare origine a "un tremaio di gioia". Il singolo vocabolo, o meglio ancora il sintagma "tremaio di gioia" sono ricordati da Meneghello come esempio sfolgorante e forma estrema di interazione fra dialetto e lingua. Meneghello è scrittore che concilia in sé due qualità difficili a trovarsi unite: un uso intuitivo, squisitamente artistico del dialetto, e una riflessione meticolosa, da intellettuale professore, sulle proprie scelte. Ecco allora che nel saggio d'apertura di questo volume egli individua nel proprio agire stilistico due operazioni fondamentali: un uso del dialetto in italiano e un uso dell'italiano in dialetto. Spieghiamoci meglio: Meneghello, indulgendo a una componente definitoria in parte ludica, cioè a "un mezzo scherzo per indicare una cosa seria", comincia con l'elencare alcune forme di uso letterario della materia dialettale, cosi saturata e animata di vita popolare; naturalmente non si tratta di traduzione dal dialetto alla lingua, e nemmeno di citazione, ma di "trasporto".
Diamo la parola all'autore: il trasporto è "la creazione di una parola che deve parere italiano (non nel senso di essere creduta italiana, ma nel senso di armonizzare con l'italiano) e insieme rispecchiare il dialetto, e che può funzionare solo se sta in un contesto che permetta di percepire almeno l'aroma" del significato pregnante dialettale. Vedi: bao, barbastrijo (pipistrello), lotàre che significa in dialetto "vincere" (e dove l'accento insieme alla scempia è segnale di dialetto).
Se invece la freccia è diretta dall'italiano al dialetto, nascono delle "parodie" foniche o morfologiche, cioè parole italiane storpiate per l'interazione fra lingua e dialetto: atimpùri (atti impuri), rèola (aureola) ecc.
Molto stimolante nel volumetto è il dialogo, e lo sarà stato ancor più oralmente, fra Meneghello e il linguista Giulio Lepschy: il primo cerca una spiegazione linguistica del suo fare stilistico partendo dalla propria sensibilità artistica per le strutture fonico-timbriche del dialetto e quindi trova che "oseleto" è vivo, mentre l'italiano "uccellino" ha l'occhio un po' vitreo. Lepschy da linguista ha buon gioco a rispondergli che l'osservazione è piuttosto soggettiva che scientifica, in quanto tutto si può esprimere in qualsiasi lingua con particolari accorgimenti. Ricordo Terracini che soleva demolire con solidi argomenti l'espressione comune "non ho parole per dire, non trovo parole per dire". A Lepschy si devono, al di là dei rilievi specifici, due osservazioni di carattere generale: la prima riguarda la maggior presenza di interazioni, trasporti, parodie sino al capitolo 14 di "Libera nos a Malo", cioè nella parte del romanzo più strettamente legata all'universo infantile e alla sua evocazione. La seconda si riferisce alla necessità di non fare interagire unicamente dialetto e lingua letteraria, ma di inserire fra i due la funzione sollecitante dell'italiano parlato regionale. È del resto Meneghello stesso a riconoscere che negli anni Sessanta la coscienza degli italiani regionali con la conseguente problematica dell'oralità in lingua non era presente tanto quanto oggi nella nostra cultura.
Al proposito una riflessione possibile nel lettore è il grande mutamento della realtà sociale, e quindi linguistica, in Italia nei venti anni e più trascorsi dalla composizione di "Libera nos a Malo" a oggi: il dialetto, si sa, è ovunque in via di esaurimento. Meneghello sembra riconoscerlo con una punta di nostalgia, che è struggente là dove egli parla di stato quasi fossile della realtà paesana odierna, il che è comprensibilissimo se si riflette sulla carica esistenziale insita nell'uso che Meneghello ha fatto del dialetto. Lepschy appare teso piuttosto a considerare oggettivamente il miglioramento delle condizioni sociali in questi ultimi venti anni oltre che l'effettiva realtà, e quindi l'evidenza storica, delle trasformazioni linguistiche.
Ma non si parla solo in questo libro dell'operazione linguistica affiorante da "Libera nos a Malo". Ecco che Cesare Segre, polarizzando il suo discorso sulla nozione di morte di un idioma, mette a confronto il romanzo di Meneghello con i "Conflitti di lingue e di cultura" del già nominato grande linguista Benvenuto Terracini, editi a Venezia nel 1957, la cui prima parte è intitolata appunto "Come muore una lingua". Terracini, affermato che "morire per una lingua vuol dire mutarsi in un'altra", indaga le varie situazioni di bilinguismo o uso contemporaneo di due lingue di cui una lentamente morrà. Segre affianca acute osservazioni sulla diglossia o uso contemporaneo di due lingue in ambiti culturali e registri diversi: per esempio, il dialetto può venir usato nell'ambito familiare e magari solo dagli adulti della famiglia e a poco a poco estinguersi, passando all'italiano parlato alcuni suoi elementi. Successivamente Segre offre una chiara panoramica dei rapporti che nel tempo si instaurano fra livelli vari della lingua, linguaggi settoriali e dialetto al fine di storicizzare in qualche modo la posizione di Meneghello come pure il dialetto di Malo, "punto focale della nostalgia" dello scrittore e nostra. Diverso ancora il punto di vista di Ernestina Pellegrini, che indaga con intelligenza critica nel romanzo di Meneghello una sorta di "teoria del soggiacente" per cui nello scrittore l'infanzia rivisitata si identifica con Malo e il ritorno al passato con una rivelazione della propria identità. Viene citata la famosa frase del libro: "Ci sono due strati nella personalità di uomo, sopra le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino, sotto le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto". Donde lo sguardo dal basso e la regressione all'occhio infantile.
Tutto questo e molto di più il lettore troverà nel volumetto descritto, dove in realtà si pone la grande domanda: come il momentaneo della oralità passi alla scrittura e possa così resistere al tempo, dando un'illusione di continuità.

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Conosci l'autore

Luigi Meneghello

1922, Malo

Luigi Meneghello è stato un narratore italiano. I suoi romanzi (Libera nos a Malo, 1963; I piccoli maestri, 1964; Pomo pero, 1974; Fiori italiani, 1976; Bau-sète!, 1988) restituiscono luoghi della memoria e della vita quotidiana, in una prosa personale, caratterizzata da un impasto linguistico che nasce dal dialetto (ricostruito con cura filologica) e da sapienti innesti di modi gergali, idiotismi, neologismi: tutte forme che risultano di grande efficacia nel disegno psicologico. È anche autore di numerosi libri di saggistica, che spaziano da argomenti autobiografici (Jura, 1987) al panorama letterario contemporaneo (Rivarotta, 1989; Che fate, quel giovane?, 1990; Quaggiù nella biosfera. Tre saggi sul lievito poetico delle scritture, 2004), e di studi sulla tradizione...

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