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recensione di Modena, A., L'Indice 1995, n.10
Nico Naldini, biografo di valore, poeta delicato e raro, qualche volta si concede al racconto, sia il ricordo-racconto di un'adolescenza panica ("Nei campi del Friuli", Scheiwiller, 1984), o il ritratto-racconto come "Il solo fratello. Ritratto di Goffredo Parise", Archinto, 1989, ora parzialmente confluiti nel recente "Il treno del buon appetito", speciale romanzo di un'esistenza, la sua questa volta, tra Casarsa e Trieste, Milano e Roma, Magherno (piccolo comune di un Pavese arcaico) e Sabaudia.
Una storia rievocata, in un libero montaggio di figure, attraverso gli amori, i Vito, Ferruccio, Attilio, dall'eros leggero e straziante, sempre scomparsi e mai dimenticati, e le amicizie indispensabili siano i tre punti di riferimento di una vita: Pasolini, Comisso e Parise, rievocati nella morte, inattesa, decadente e beffarda, o i poeti familiari: Biagio Marin e Virgilio Giotti a Trieste, Bartolo Cattafi, a Milano, Sandro Penna a Roma, ritratti a tutto tondo in una personale antologia del Novecento italiano del dopoguerra.
Nel trattare l'ebbrezza di una conoscenza, che è scoperta di sé e dell'altro, e spesso si compenetra con una natura amica, Naldini mostra i debiti verso un maestro riconosciuto, Giovanni Comisso, da cui trae, con la felicità vitale, la grazia della scrittura; ma il suo 'amor vitae' è incrinato dalla paura dell'abbandono, Come se incombesse sempre quel "colpo d'aria", che, in una sua lirica, spazza via gli amori tenuti al caldo dell'affetto.
Una paura che viene da lontano: è il timore infantile, in un'alba di partenza, alla stazione di Casarsa, di perdere le sembianze del proprio paese e la conseguente raccolta di due grani di ghiaia, amuleti buoni, antidoto tattile alla nostalgia. È, ancora, il venir meno della fiducia assoluta riposta nella madre, che, per un errato calcolo di orari, dimentica di prelevarlo dopo la recita dalle monache, e viene scovata nel buio di un cinematografo. Lo sbaglio si converte in abbandono e crea quella vulnerabilità che diverrà "ansia col suo corteo di terrori", e avrà solo tregue, magari garantite da un "visiting angel", fantasma salvifico, come il cuoco tutto bianco che, al casello ferroviario fuori paese, scende rapidamente dalla carrozza-restaurant del direttissimo Vienna-Roma, il treno mitico del buon appetito, e deposita un cartoccio di dolciumi mai visti. Altri momenti di pace arrivano sempre col conforto della natura: che è inseguita, e assaporata nei ricordi, dalle risorgive friulane ai profumi notturni dei giardini romani, dalle nebbie lagunari alle perenni foschie della campagna pavese più primitiva e inselvatichita.
Analisi lucida di una nevrosi con punte acuminate di depressione, questo libro incrocia sapientemente memoria e ragione, e le utilizza in una salutare ricostruzione della propria personalità, forte da sapersi sottrarre in tempo a quella dell'incombente cugino, da cui differenzierà le scelte di vita e di lavoro.
Nel ventennale della morte di Pasolini, inquinato dalla riapertura delle indagini sulla meccanica del suo assassinio, il fatto che Naldini lo ritenga opera del solo Pelosi, senza nulla concedere a teorie di complotti, ha monopolizzato, ancora una volta, sui maggiori quotidiani, l'attenzione di molti recensori di "Il treno". Ma su questo argomento, non centrale nel libro, conta di più capire il percorso ultimo di Pasolini e quel fatale errore di valutazione attorno a una fisionomia familiare di ragazzo.
Per Naldini è una morte, "la prima violenta nella cerchia dei suoi amici", che apre un conto più difficile col destino.
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