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Come osserva Revelli nella prefazione, lo studio di Casiccia si inserisce in un filone che ha avuto in Alfredo Salsano, "anima" per anni della Bollati Boringhieri, uno dei massimi studiosi italiani. Si tratta della riflessione sul managerialismo nel Novecento, che Casiccia ripercorre con chiarezza, a partire naturalmente dai cambiamenti nella forma-impresa all'inizio del XX secolo e dalla razionalizzazione tayloristica del lavoro. Tali sviluppi si accompagnarono a nuovi dibattiti sull'organizzazione della produzione, e sui suoi aspetti "gerarchici": significativamente viene citato, ad esempio, un trattato degli anni venti sul comando, opera di un colonnello dell'esercito americano, Edward L. Munson, che si rivolgeva nel contempo alla gerarchia militare e al mondo industriale. Sulle conseguenze del fordismo e del taylorismo si soffermarono poi molti europei, come Bertrand de Jouvenel (che individuò nella razionalità della produzione aspetti che avrebbero portato benefici agli stessi operai), i vari protagonisti del dibattito sul "planismo", e anche Gramsci, il quale confidò nel carattere potenzialmente autoemancipatorio dell'organizzazione del lavoro, contrapponendo una prospettiva di "autogoverno" all'organizzazione imposta dall'alto.
Ma è soprattutto all'ambito americano che Casiccia dedica ampio spazio, a cominciare dal fondamentale contributo di Thorstein Veblen, che esaminò con lucidità le caratteristiche di una "proprietà assenteista" e la necessità del passaggio a una direzione industriale più responsabile. All'inizio degli anni trenta, inoltre, un gruppo newyorkese di studiosi, chiamato Technocracy, sollevò, ispirandosi in parte proprio a Veblen, un dibattito a largo raggio. Il "sistema dei prezzi" venne considerato obsoleto: doveva essere soppiantato al più presto da un nuovo ordine, retto da coloro che conoscevano e praticavano il "mondo della tecnica". Nell'alveo di tali riflessioni non poteva ovviamente mancare La rivoluzione manageriale di James Burnham, opera del 1941 che nuovamente partiva dal managerialismo che gradualmente soppiantava il vecchio ordine capitalistico.
Il volume attraversa comunque l'intero arco della trasformazione dell'élite manageriale, giungendo all'economia neoliberista di fine Novecento, nella quale il manager rimane la figura di riferimento nella direzione aziendale. La funzione di penalizzare il suo insuccesso è passata dalla "programmaticità" dello stato alla spontaneità del mercato, ma, in realtà, sostiene l'autore, i manager si sono sottratti alla "giustizia" che dovrebbe discendere dalla legge naturale della domanda e dell'offerta, attribuendosi ricompense senza contropartita meritocratica, abusando delle stock options e approfittando in ogni modo della deregulation . Si è passati così dal trionfo alla crisi dell'élite manageriale, attestata recentemente dai casi, tra gli altri, di Enron, Parmalat, WorldCom, Lucent e Cirio. Il libro offre dunque una panoramica su questioni cruciali, che hanno contribuito, per molti versi, nel corso del Novecento, a plasmare le élite pubbliche e private sulla base di criteri ispirati sostanzialmente al mito, non sempre giustificato, dell'efficientismo e della competenza, e molto meno al metodo del controllo democratico.
Giovanni Borgognone
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