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Il trip della follia. Cronaca della sofferenza - Kate Millett - copertina
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Dettagli

1997
31 dicembre 1997
334 p., Brossura
9788879530293

Voce della critica


recensione di Nadotti, A., L'Indice 1994, n. 8

È dedicato "a coloro che ci sono stati", l'ultimo libro di Kate Millett, diario straziante e vitalissimo di una resistenza alla crudeltà immotivata e cieca delle istituzioni totali; in questo caso il manicomio. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1990, "Il trip della follia" esce ora nella traduzione italiana di Bianca Piazzese, che ha saputo restituire con sensibilità il linguaggio dell'autrice, ora duro e insolente, ora poetico, ora di aperta denuncia, ora di privatissima riflessione.
Kate Millett è implacabile, incalzante, come sempre coerente con se stessa - non ha perduto il piglio e la lucidità dei libri che la resero famosa negli anni settanta ("La politica del sesso", "In volo", "Sita" - quest'ultimo ripubblicato di recente dalle stesse edizioni Kaos). Al contrario, in questo diario sembrano sommarsi i percorsi compiuti dalla studiosa femminista, la consapevolezza delle proprie molteplici appartenenze, l'orgogliosa riaffermazione della propria storia e la ricerca non preconcetta di radici, nazionali e affettive.
"Questo è il resoconto di un viaggio in quello stato allucinatorio che è attribuito alla pazzia: la condizione sociale, l'esperienza del venire estromessi e rinchiusi. Racconto quello che successe a me. Perché il raccontarlo è una specie di esorcismo, un recupero, e una rivendicazione del sé - la mente - nel rivivere quanto accadde". Così, nella prefazione, Kate Millett spiega l'origine di questo diario, scritto tra il 1982 e il 1985 (più una conclusione dell'88). I luoghi - la fattoria di Poughkeepsie, nel New England, comunità di donne artiste; l'Irlanda, meta di un viaggio insieme privato e politico, che assurdamente si traduce nell'esperienza diretta della più sconvolgente delle istituzioni manicomiali; infine New York - sono quelli in cui cercò allora di vivere la propria vita di artista e di militante, ben decisa a farla finita con gli psicofarmaci, nella fattispecie l'aborrito litio, il cui uso le era stato prescritto anni prima per curare "quella complicità con la disapprovazione sociale che si chiama depressione" dopo un ricovero coatto di alcuni mesi, "un vergognoso incidente, un errore e un equivoco tra i componenti della mia famiglia, frutto dell'ingenuità". Libera sulla parola, e terrorizzata all'idea di ripiombare nella "depressione" - "perché chiamarla depressione? Perché non chiamarla sofferenza? - la scrittrice aveva accettato di prendere il litio. Ma il litio "rallenta il pensiero, annebbia le sinapsi, trattiene, acquieta, reprime l'attività cerebrale", e decidere di smettere, contro il parere di tutti, contando solo sulle proprie forze, sorretti solo dal rispetto di se stessi, è durissimo, quasi impossibile. E questo diario lo documenta ampiamente, comunicandoci lo strazio e la rabbia di chi ci prova, e imponendoci una riflessione più generale, e alcune domande che anche altri libri recenti (penso ai "Versi di un invalido civile di mente al 100/l00" di Francesco Crisafulli e alla "Critica al giudizio psichiatrico" di Giorgio Antonucci, entrambi pubblicati dalle edizioni Sensibili alle foglie) e alcuni film hanno contribuito a rendere di attualità. Ovvero quale sia concretamente l'esito di sistemi sanitari e assistenziali che si vorrebbero di protezione e aiuto per i cittadini in società considerate democratiche per eccellenza come quelle anglosassoni, ove la libertà individuale, lungi dal trovare negli altri un sostegno e un limite nel necessario rispetto reciproco, viene invece negata con aprioristica violenza se ritenuta potenzialmente lesiva dell'integrità del sistema stesso che, per salvaguardare la cosiddetta normalità, nega il diritto alla diversità e alla sofferenza, con ciò rivelando la propria natura totalitaria. Alle grida di Kate Millett - artista, lesbica, battagliera militante per la difesa dei diritti dei prigionieri politici negli Usa, in Irlanda o in Iran - fanno eco le grida della prolifica protagonista dell'ultimo film di Ken Loach, "Ladybird, Ladybird". Ribadendo l'equazione attaccamento alla propria vita = diritto alla propria diversità si rischia di cadere in balia di quanti sono preposti a vigilare sul nostro bene misurando "la condotta, il contegno, il comportamento sociale", stabilendo limiti e canoni di desideri e fantasie, dichiarando perseguibile, e segregabile, chi ad essi non si conforma, facendo di ogni diverso, di ogni sofferente, un 'borderline'.
"In un sol colpo, nell'arco di una settimana, perdetti marito e casa, il matrimonio e lo studio, senza mai realmente sapere quale perdita fosse peggiore, ma sospettando che quella dello studio colpisse più profondamente il sé e il suo senso di sicurezza", ricorda Kate Millett, e sottolinea l'improvviso senso di panico, lo smarrimento, con "la gente che continua a rivolgersi a te per posta o per telefono" e tu che vuoi morire. Forse ti sono saltate le rotelle, ma resta comunque il diritto al dolore e alla disperazione, invece "quello che infine mi ridusse al silenzio fu arrivare a comprendere quanto fermamente coloro che mi avevano imprigionata credessero nella correttezza di ciò che mi avevano fatto; niente al mondo li avrebbe fatti dubitare. Non avrebbero mai ammesso l'esistenza di una zona intermedia di leggero squilibrio, o pensato alla follia come a una condizione ibrida, una situazione ambivalente, non un crimine".
Anni di sofferenze inutili, una lotta a tratti incompresa anche dalle amiche migliori, perfino dalla sua compagna, eppure da tanta devastazione rispunta infine la voglia di vivere, scrivendo quanto è successo, raccontando tutto, impietosamente, senza risparmiare a chi legge l'allucinata monotonia di certe descrizioni d'interni manicomiali, l'effetto perturbante che il dolore altrui ha sulla propria coscienza, talvolta forse la paura di queste energie liberate dalla propria psiche, ma questo voleva senza dubbio Kate Millett, quando, finalmente affrancata da una dipendenza non scelta, decise di abbandonare ogni altro impegno, e di mettere nero su bianco quel macigno che si portava dentro, di costringere chi legge a condividerne il peso.

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