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Tute blu. La parabola operaia nell'Italia repubblicana - Andrea Sangiovanni - copertina
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Descrizione


La storia dell'Italia repubblicana, ha avuto tra i suoi protagonisti le migliaia di operai che dagli anni '50 hanno dato il via al "miracolo economico", che in pochi anni ha trasformato l'identità del paese portandolo nel novero dei più industrializzati del mondo. Ma qual è la traccia che la loro storia ha lasciato nella percezione comune? In queste pagine, uno storico indaga la parabola delle immagini collettive degli operai dal 1950 al 1980: il modo in cui essi sono stati visti, raccontati, rappresentati, in trent'anni della storia italiana.
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Dettagli

2006
12 maggio 2006
XIV-305 p., ill. , Rilegato
9788860360458

Voce della critica

Prova a riempire un vuoto emblematico l'ampia ricostruzione storica di Andrea Sangiovanni sulla cultura e i comportamenti della classe operaia dal dopoguerra al 1980, data dopo la quale il venir meno della centralità operaia ha fatto tutt'uno con l'oblio assoluto non solo delle tute blu mitologiche, ma anche di quelle, gramscianamente intese, "in carne e ossa". Non che dopo la sconfitta alla Fiat dell'autunno 1980 siano mancati gli studi a essa dedicati, ma certo la capacità di "smemoratezza", come ci ricorda Guido Crainz nell'introduzione, degli storici e della cultura in generale ha esercitato a lungo la sua azione di rimozione della questione operaia, almeno quanto gli anni settanta vi avevano prestato attenzione. Tornare dunque a interrogarsi sulla classe operaia, "su una classe che (davvero?) non c'è più", e sicuramente non nelle forme classiche della fabbrica fordista, è già una delle ragioni dell'interesse certo non esiguo di questo lavoro.
Un'altra ragione risiede nella ricchezza delle fonti utilizzate, attraverso le quali Sangiovanni si muove con destrezza e maestria. Oltre alle fonti storiograficamente "più ufficiali" – soprattutto sugli anni cinquanta, ma anche sui turbolenti settanta, la letteratura sia accademica sia militante è notoriamente vasta – si ricorre con frequenza alle fonti giornalistiche coeve (certe inchieste sul "Giorno" di Giorgio Bocca narrano il malessere degli operai comuni alla catena di montaggio prima che esploda l'autunno caldo, così come altre cronache, dello stesso Bocca o di altri giornalisti attenti, analizzano le trasformazioni profonde in seno alla classe operaia prima della sconfitta del 1980), a quelle letterarie, a quelle audiovisive e in particolare a quelle cinematografiche, e non soltanto di tipo documentaristico. Il risultato è un ritratto a tutto tondo in cui la rappresentazione degli operai delineata da giornali e rotocalchi, nel cinema popolare e nei romanzi s'intreccia con l'autorappresentazione ufficiale, e spesso idealizzata, costruita all'interno del movimento operaio e del sindacato.
Il discorso si sviluppa attraverso quattro sequenze cronologiche che segnano l'ascesa e il declino delle tute blu nel secondo Novecento italiano. L'occhio - macchina da presa dello storico passa dal campo lungo degli anni duri e dell'isolamento della guerra fredda (1950-1957) alla messa a fuoco sul miracolo economico italiano e sui governi che precedono e attraversano il centro sinistra (1957-1968), al primo piano del più intenso ciclo di lotte operaie che la storia recente ricordi (1968-1973), per finire con l'immagine non così nitida, e in dissolvenza, della resistenza operaia contro la crisi economica e la ristrutturazione industriale, conclusasi con la sconfitta-trasformazione del 1980, quando, per dirla con la graffiante iconoclastia del periodico satirico "Il Male", diventata presto senso comune, "la classe operaia esce dalla storia ed entra nella leggenda".
Nella prima fase di questa parabola si afferma l'identità forte della "classe operaia" cosiddetta "vera", in cui l'immagine dell'operaio "comunista", più ancora che sull'appartenenza a un partito, si fonda sull'etica del lavoro dell'operaio "di mestiere", a cui fa da contraltare, nella visione stereotipata delle culture politiche, la figura dell'operaio "integrato" di matrice cattolica e aziendale, pur con le differenze che separano il collateralismo delle Acli dal sindacalismo aziendale alla Arrighi. Il tracollo della Cgil alla Fiat nelle elezioni della commissione interna, che, più ancora della sconfitta politica delle sinistre del 18 aprile 1948, verrà vissuto dai quadri di fabbrica come una vera catastrofe, appare così inscritto in una fase in cui il movimento operaio è costretto dal quadro politico internazionale alla difensiva e alla testimonianza nei reparti confino, ed è anticipato da due eventi simbolo: in primo luogo il licenziamento il 1° gennaio 1952 di Battista Santhià, operaio formatosi in anni "gramsciani", nominato commissario alla Fiat dal Cln e in seguito direttore dei servizi sociali dell'azienda, ai cui occhi è diventato un "distruttore", e in secondo luogo l'autogestione delle Officine Reggiane, sfida perdente contro la smobilitazione industriale, due eventi che segnano la riaffermazione capitalistica e il restaurarsi del pieno controllo padronale in fabbrica.
La ripresa delle lotte operaie verrà a partire dal triennio 1960-1962; in quest'ultimo anno la conflittualità operaia si impennerà, oltrepassando i 126 milioni di ore di sciopero, superate soltanto nel 1969. È in occasione delle lotte contrattuali della più importante delle categorie industriali, i metalmeccanici, che avvengono "i fatti di piazza Statuto". L'assalto alla sede torinese della Uil, che aveva anticipato le trattative rompendo la ripresa dell'unità sindacale, segnala il sorgere di una nuova rabbia operaia di cui i giovani sono protagonisti emergenti e incrina quell'immagine di "classe nazionale" che la sinistra tentava di costruire. Spiazzati, il sindacato e il Pci definiscono i giovani operai "provocatori", con un giudizio non distante dalla stampa d'informazione, che li battezza "scamiciati arrabbiati" e "teddy boys".
Dopo l'interruzione della congiuntura economica del 1963-64, riprendono i processi di modernizzazione del paese e con l'avvento del consumismo i cancelli delle fabbriche si schiudono a ulteriori giovani leve operaie che le migrazioni interne conducono nelle fabbriche del Nord. Si tratta di lavoratori in genere più acculturati dei loro padri e meno disposti a sottomettersi ai vincoli della gerarchia aziendale. Soprattutto, è dallo scarto fra le aspettative e la realtà della fabbrica taylorizzata – "vedrai come è bello / lavorare con piacere / in una fabbrica di sogno / tutta luce elibertà"cantava Gualtiero Bertelli del Nuovo canzoniere italiano – che nasce una sempre più diffusa perdita di identificazione con il lavoro operaio, cosicché l'ingresso in fabbrica è un'esperienza traumatizzante per le nuove generazioni. La scoperta della "realtà operaia" rivoluziona anche l'atteggiamento tradizionale del mondo cattolico: se la Fim-Cisl passa negli anni sessanta "dall'associazione alla classe", le Acli dedicano nel 1967 il convegno di Vallombrosa alla "Società del benessere e la condizione operaia".
Gli anni che vanno dal '68 al '73 sono poi, per antonomasia, gli anni degli operai. Grazie a una radicalità che mette in discussione il ruolo del sindacato, dal basso fortemente contestato dalla figura dell'operaio massa, presto destinata a diventare uno stereotipo per i teorici dell'Autonomia operaia e del "rifiuto del lavoro" , si assiste ora al protagonismo dei giovani operai, senza esperienza sindacale né specializzazione e predisposti a trasformare"le rivendicazioni, i rapporti interni alla classe operaia e le forme espressive della mobilitazione" in una certa sintonia con le lotte del movimento studentesco, i cui militanti arrivano davanti alle fabbriche. Ma l'organizzazione sindacale riuscirà a riconquistare un rapporto forte con il movimento, istituzionalizzando il conflitto attraverso i consigli e i delegati operai. Sarà alla fine sopratutto merito del sindacato se l'operaio si imporrà come un nuovo soggetto sociale sulla scena pubblica. È un aspetto, questo, forse non messo in sufficiente rilievo da Sangiovanni, che, pur ricordando ad esempio il ruolo centrale svolto dal sindacato, e dai metalmeccanici in particolare, sulla scena politica italiana di quegli anni, dedica poi poco spazio alla Flm, esperienza unica e originale nel panorama europeo e protagonista, nel bene e nel male, del lungo decennio successivo all'autunno caldo.
Anche "l'appannamento" dell'immagine del movimento sindacale e della classe operaia viene un po' anticipato e ricondotto a quel marzo 1973 in cui l'occupazione di Mirafiori porterà alla conclusione del contratto dei metalmeccanici, anche se in quel rinchiudersi dietro i cancelli si cela effettivamente un segnale di debolezza che sfuggirà prima di tutto ai protagonisti. Impegnato nella lotta per le riforme per gli uni e a estendere il "potere operaio" nella società per gli altri, il sindacato è in realtà stretto nelle fabbriche dalle lotte contro la ristrutturazione produttiva, e quel movimento a ritroso, un passo indietro alla volta fino a un ultimo arroccamento nell'autunno del 1980, questa volta fuori dai cancelli, sembra ripercorrere in senso contrario la dinamica avviatasi con la rottura del '69. La classe operaia, unendosi, aveva allora spezzato l'isolamento che la chiudeva dentro la fabbrica, prima con cortei interni che annullavano la separazione tra reparto e reparto, e poi riproponendo un contatto con l'esterno e dirigendosi verso i centri cittadini. Ma sui trentacinque giorni dell'ottobre '80, sconfitta preannunciata o evitabile, pesano lacerazioni forti ancora oggi, a venticinque anni di distanza. Una ragione in più perché vi si torni a riflettere come ci invita a fare questo volume.
  Nino De Amicis

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