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Il titolo, a mio avviso non molto delicato nei confronti dei poeti indiani, si rifà a dei versi di una poesia del celebre poeta persiano Hafez (1315-1390) che paragona la sua poesia allo zucchero e i poeti concorrenti a golosi pappagalli: “S’addolcisce, in India la lingua a tutti i pappagalli per questo zucchero di Persia che va verso il Bengala”. Fatta questa precisazione, il lavoro di Pellò è straordinario ed estremamente originale, andando a riempire uno spazio di riflessione, alquanto trascurato, inerente la quasi millenaria presenza della lingua e letteratura persiana in India, caratterizzato da un’immensa vastità e varietà di produzione testuale e dal significativo e imprescindibile contributo degli intellettuali indiani non musulmani alla letteratura indo-persiana. In effetti essi parteciparono attivamente al dibattito linguistico letterario, influendo direttamente tanto sulle scelte estetiche quanto sull’auto rappresentazione della civiltà letteraria persiana dell’India. Addirittura, per qualche studioso, la quantità di letteratura persiana prodotta nel sub continente indiano, dall’XI al XIX sec., è superiore a quella prodotta in Iran nello stesso periodo. Pellò sottolinea anche che: ”lessicografia e grammatica persiana hanno avuto nel subcontinente uno sviluppo sia qualitativo che quantitativo di gran lunga superiore a qualunque altro contesto del mondo islamico, altopiano iranico compreso”. Ed ancora, nelle parole del prof. Carl W. Ernst: "L'interazione culturale tra la civiltà indiana e l'islamica è durata ben più di un millennio. Il movimento di traduzione dalla cultura indiana a quella islamica è ancora poco studiato, anche se, come dinamica interculturale, il passaggio di testi dalla lingua sanscrita all'arabo e al persiano è comparabile, per quantità e rilevanza, alle altre grandi imprese di questo tipo". Da tutti questi dati si evince la complessità del lavoro affrontato dall'autore, che è senza dubbio riuscito nello scopo che si era prefissato.
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