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recensione di Gorlier, C., L'Indice 1994, n. 9
Ogni epoca esige giustamente che i classici stranieri vengano tradotti o ritradotti. Non dico che una nuova tradizione di "Moby-Dick" di Herman Melville si imponesse con urgenza; certo era decisamente opportuna: l'abbiamo grazie allo sforzo ammirevole di Ruggero Bianchi, al quale dobbiamo anche un'articolata prefazione della quale non parliamo in questa sede per ovvia mancanza di spazio. Del resto, secondo un vecchio ma inattaccabile luogo comune, una traduzione è in sé un'operazione critica. Più che un romanzo, "Moby-Dick" è, secondo i canoni prediletti dagli scrittori della Nuova Inghilterra, un romance, vale a dire un'opera che privilegia l'immaginario e il fantastico, il simbolico e l'allegorico, il cui realismo si pone, auerbachianamente, come mimesi, e dove i legami con gli ascendenti medievali e rinascimentali non sono stati mai recisi. Come dimostrò in un suo libro Ursula Brumm, si può ben parlare di concettualità ('Denken') tipologica nel senso biblico. Ne discende che i codici di linguaggio appaiono molteplici e a diversi livelli, accanto e insieme alla riscrittura di modelli, dei quali i più agevolmente riconoscibili sono la Bibbia e Shakespeare (specie "King Lear"), nel quadro della retorica omiletica (la perorazione, la "geremiade") peculiare della tradizione puritana americana. Poi, il referente romantico, da Coleridge a Carlyle. Qui si innerva l'epica melvilliana. Ma non basta: la tragedia esemplare di "Moby-Dick" è anche quella di una crisi epistemologica, dove l'assunzione del 'mystic' dei romantici inglesi, la rappresentazione del non descrivibile conoscitivo, singolarmente anticipa il 'mystisch' di Wittgenstein.
Bianchi si è confrontato sostanzialmente con due traduzioni, quella ormai proverbiale di Cesare Pavese e la più recente, del 1966, di Nemi D'Agostino. Non vale mettere nel conto la traduzione del '58 di Cesarina Melandri Minoli, cui poco è giovata la pur meritoria cosmesi praticata da Massimo Bacigalupo per gli Oscar Mondadori e che purtroppo è stata a suo tempo data in pasto ai lettori innocenti dell'"Unità". Non sono del tutto d'accordo con l'opinione di Bianchi che D'Agostino abbia lavorato sulla falsariga di Pavese, considerando la sua ambizione di offrire una versione in certo senso "bassa" rispetto a quella "alta" pavesiana. Pavese si proponeva da un lato nelle sue traduzioni di operare un meditato e spesso sofferto esercizio di stile, di riappropriazione e insieme di apprendistato; dall'altro rifiutava l'idea vittoriniana di una riscrittura non rispettosa di precisi canoni filologici. Se Ahab lotta con Dio, Pavese lotta con Ahab, cosciente che non si tratterà mai di un confronto alla pari ma cimentandosi come se lo fosse: una sfida, una scommessa, tra superbia e filiale reverenza. D'Agostino, accademico rigoroso ma dotato di una singolare attitudine alla scrittura creativa, propone snodi più colloquiali e immediati, a costo di qualche trasgressione calcolata sul piano strettamente filologico. Pavese aveva a disposizione, dati i tempi, siamo nel '33, strumenti abbastanza limitati, e spesso di mediazione francese, oltre ai consigli dell'amico italo-americano Chiuminatto. Si comprendono, dunque, alcuni infortuni, come quello clamoroso del titolo del capitolo 79 ("The Praire"), dove si legge "Preghiera" anziché "Prateria", in questo, abbastanza inspiegabilmente, seguito da D'Agostino. Ha ragione Bianchi a notare che, nel tentativo di salvare la densa "letteralità" melvilliana, l'italiano di Pavese risulta talora di ardua decodificazione o persino innaturale. Ecco in che modo si mosse D'Agostino, cioè nel tentativo di organizzare una scrittura meno impervia. La considerevole riuscita della traduzione di Bianchi, per cui essa si pone fin d'ora come indispensabile, sta appunto nell'essersi il traduttore reso conto di simili dilemmi e di averli in larga misura sciolti. Devo dichiarare a questo punto il mio unico serio punto di dissenso, che riguarda - 'risum teneatis' - l'attacco. Sfondiamo una serie di porte aperte quando insistiamo sulla funzione cruciale dell'incipit nei testi letterari. In "Moby-Dick", Melville realizza una vertiginosa strategia nel rapporto significato-significante e l'incipit davvero memorabile ("Call me Ishmael") ne offre la riprova. Egli si preoccupa di non iniziare il libro con il nome del personaggio-narratore, già manifestando una difficile ricerca e/o definizione di un'identità per così dire provvisoria; istituisce una moderna relazione narratore-lettore; esperimenta sin dalla prima riga una ricerca prosodica di ampio respiro che si riconduce a quanto Cicerone, nell'"Orator", chiamava 'delectus clausularum'. La soluzione adottata da Bianchi: "Ishmael-chiamatemi così", capovolge il paradigma a favore di una soluzione più vicina al parlato sulla quale nutro dolorosa perplessità.
Vediamo ora, simmetricamente e in chiave comparativa, la chiusa di "Mohy Dick", o meglio l'ultimo passo prima dell'"Epilogo". L'originale suona così: "Now small fowls flew screaming over the yet yawning gulf; a sullen white surf beat against its steep sides; then all collapsed, and the great shroud of the sea rolled on as it rolled five thousand years ago". Un festino di allitterazioni, una decisiva ripetizione; due pause; un chiaro discendendo. Pavese: "Piccoli uccelli volarono ora, strillando, sull'abisso ancora aperto; un tetro frangente bianco si sbatté contro gli orli in pendio; poi tutto ricadde, e il gran sudario del mare torn• a stendersi come si stendeva cinquemila anni fa". D'Agostino: "Ora piccoli uccelli volarono stridendo sul vortice ancora aperto. Un tetro frangente biancastro urtò i suoi bordi ripidi. Poi tutto crollò, e il gran sudario d'acqua torn• a mareggiare come aveva fatto cinquemila anni fa". Bianchi: "Ma ormai minuscoli uccelli volavano stridenti su quell'abisso ancora spalancato, mentre una bianca risacca astiosa ne frustava i fianchi scoscesi. Poi tutto sprofondò e il grande sudario del mare riprese a fluttuare, come cinquemila anni fa". Pavese salva il più possibile l'allitterazione, e, unico dei tre, l'iterazione; D'Agostino trasforma "mare" in un riduttivo "acqua"; Bianchi, fedele alla cifra coerente della sua traduzione, unisce letteralità e ritmo di frase sciogliendo abilmente i possibili nodi dell'originale, pur sacrificando la ripetizione e trasformando l'immagine del crollo in quella si direbbe "poesca" dello sprofondamento quasi mistico, a somiglianza della discesa nel mälström.
Un merito, e non il solo, di Bianchi, risiede nel rifiuto di uno dei rischi che Pavese maggiormente corre, vale a dire l'omologazione. Se verifichiamo un capitolo esemplare, il 54, "La storia della Town-Ho", ci riuscirà facile constatare con quanta accortezza egli riesca a preservare il doppio registro, epico e insieme bruscamente discorsivo, che lo caratterizza, mantenendo tutta la densità corrugata dell'originale. Infine, la ripulitura lessicale rispetto alle traduzioni precedenti non va giudicata soltanto un elemento secondario, ma incide sulla struttura portante del testo. Il progetto di Bianchi si realizza con stringente coerenza, e senza dubbio questa impresa rimarrà a lungo una pietra di paragone, sia per lo studioso, sia per il lettore.
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