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Tutto è sciolto. L'amore triestino di Giacomo Joyce - Roberto Curci - copertina
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Tutto è sciolto. L'amore triestino di Giacomo Joyce
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Dettagli

1996
128 p., ill.
9788886179812

Voce della critica


recensione di Cavaglion, A., L'Indice 1997, n. 5

Chissà che sussulto farà sulla sua sedia il redattore del "James Joyce Quarterly" quando vedrà le fotografie riprodotte in questo libretto! Se avesse potuto analizzare l'istantanea che riproduce una delle tante "classmates" dello squattrinato insegnante privato della British School, l'impeccabile (ma poi non tanto) Richard Ellmann, nella sua monumentale biografia dello scrittore irlandese, difficilmente sarebbe caduto nell'errore di identificare in Amalia Popper la "mistery lady", la "dama bianca" di Joyce a Trieste, l'ispiratrice dell'enigmatico taccuino "Giacomo Joyce" (che gli studiosi datano al 1914 e di cui esiste una raffinata traduzione di Francesco Binni, Guanda, 1968). Un abile ricercatore triestino è riuscito a scovare questa e una dozzina di altre fotografie utilizzando strumenti degni di Sherlock Holmes. E non è, questo, il solo documento che metterà in agitazione la redazione del "James Joyce Quarterly" e farà scorrere qualche brivido nella schiena agli accigliati e irritabilissimi adepti delle più diverse sette joyciane sparse per il globo nel momento in cui apriranno questo divertente libretto.
Molte cose del soggiorno triestino di Joyce vengono qui rimesse in discussione.Il taccuino, con gli appunti di "Ulisse", faceva parte di quella ormai notissima valigia di carte che lo scrittore lasciò a Trieste e a lungo reclamò, con variopinte espressioni dialettali, scrivendo anche a Svevo. È un breve testo, di poche pagine, oscuro a leggersi ("una tortura", amava ripetere il povero Schmitz, ogni volta che era chiamato a testimoniare la sua amicizia per l'insegnante inglese, che, forse, corteggiò anche sua moglie). Rincorrendo Joyce e le sue allieve l'autore rincorre la borghesia illuminata, colta e multilingue della sua città, mitteleuropea ma anche "italianissima", grande ma anche vicina all'esplosione bellica "che tutto cancellò". Elementi nuovi, brani di lettere, testimonianze di superstiti scovati un po' in tutto il mondo vengono offerti in una narrazione piana, lucida e accattivante, soprattutto equilibrata e nient'affatto urlata. Curci ha un garbo tutto suo nel prendere posizione, non è di quelli che sbandierano volentieri i risultati ottenuti. Possiede però il gusto del narratore erudito. Ci dà notizie preziose sulla vecchiaia della Popper, ciò che a rigore avrebbe potuto evitare di fare, dato che non ritiene sia lei la partner del famoso platonico bacio; pur spiegandoci che non c'entra per niente con la storia d'amore in questione (la Popper fu, tra l'altro, prima traduttrice di Joyce, come si può ancora vedere in una recente riedizione di Araby, oggi disponibile per virtù della piccola casa Ibiskos) l'autore ci racconta gli ultimi anni fiorentini della vita infelice di Amalia: un racconto, dentro il libro, di notevole spessore umano corredato anche questo di testimonianze iconografiche.
Il titolo che Curci ha dato al suo studio deriva da una poesia che Joyce prese a scrivere dopo l'infatuazione per la dama bianca (è l'aria di Elvino, nella "Sonnambula" di Bellini).In realtà l'enigma non è sciolto per niente, ma indizi assai fondati lasciano intravedere la possibilità che la fiamma triestina del dublinese risponda al nome di Emma Cuzzi. Nient'affatto carina, persino un po' sgraziata, a giudicare dall'istantanea scoperta da Curci: Olivia Hannapel e Maria Luzzatto, insieme a lei davanti all'obiettivo, emanavano ben altra sensualità e sono più fortemente indiziate (Olivia non assomiglia un po' anche a Nora?).Ma chi fu la prediletta? "Who?" non per caso inizia così il taccuino. Tutte e tre sicuramente più belle e affascinanti dell'Amalia Popper su cui s'erano concentrati gli sforzi e le indagini di Ellmann (forse tradito dalle ambizioni del marito di Amalia, Michele Risolo, squallida e viscida figura del ventennio fascista triestino, che della moglie, dopo averla in tutti i modi tradita, s'occupò solo quando Ellmann gli scrisse e gli fece balenare un'inattesa notorietà).
Non di poco conto l'enigma Popper-Cuzzi. In gioco vi è la ripresa di interessi poetici del dublinese ("Pomes Penyeach"), un po' di Molly, ma soprattutto la Beatrice di "Exiles". Senza dire del ricordo di Trieste.Valeva la pena mettersi in bocca la pipa e in testa il cappello di Holmes, impugnare la lente, rileggere il taccuino e lavorare su indizi solo in apparenza labili: gli occhi di gufo (il padre di Emma li aveva, eccome, risulta da un'altra foto scovata); l'appendicectomia (Emma subì questo intervento; si legge nel "notebook": "il ferro del chirurgo è penetrato nelle sue carni e se ne è distaccato lasciandole sul ventre la cruda piaga sgraziata del suo passaggio. O Dio libidinoso!"), la passione per i cavalli (Emma, a differenza di Amalia, fu una vera amazzone), l'"intermarriage" (Emma, a differenza di Amalia, era figlia di matrimonio misto ebraico-cattolico), l'irredentismo del padre dagli occhi di gufo. Curiose coincidenze? Può darsi. Come se ciò non bastasse Curci acclude qualche prova catastale, difficile da contestare persino dal sullodato redattore della rivista di joyciani ortodossi. Si sa come Joyce amasse giocare con le sue allieve, nel giardino della villa. Si apprende anche che era non poco superstizioso e, al suo primo apparire nella casa di Emma, portò "un pianeta della fortuna" ("a fortune") con su scritto "Perderai qualcosa di prezioso, ma lo ritroverai": una scritta, diremmo noi, tipo quelle che si leggono dentro i baci Perugina, ma, per Emma, premonitrice. Scartabellando fra le planimetrie triestine dell'anteguerra, l'autore ha scoperto che la villa confinante con quella dei Cuzzi, appartenente a "un americano a Trieste" di Cincinnati, tal Albert Frankfurter, fino allo scoppio della grande guerra aveva in cima al tetto, effettivamente, una torretta e il bovindi di cui si parla nel taccuino. L'occhio di Joyce, dopo aver contemplato quella strana torretta, andò a cadere sull'occhio di una delle tre grazie, la figlia del gufo. Più poetica dello sguardo di così!

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