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Avevo visto in concerto Nascimbeni quasi 40 anni ad un Festa de L'Unità. Cantava prima di Ron, ambedue giovanissimi. Avrei scommesso più sul successo del primo, che invece scompare, almeno dalla mia vista di accanito appassionato della canzone d'Autore. Mi riappare anni dopo nelle vesti di giornalista; sembrava logico, con cotanto padre. Poche settimane fa la notizia che dei bulletti fascistoidi lo avevano aggredito era accompagnata dall'aggettivo "cantautore". Mi è venuta così la curiosità di ascoltare cosa mi ero perso in questi 40 anni. E mi sono imbattuto in questo disco, rimanendone letteralmente folgorato. Certo, da grande amante di Vecchioni, il fatto che questo lavoro riecheggi della poetica del Professore (che partecipa peraltro in un pezzo e che di Nascimbeni è amico) forese ne ha facilitato il gradimento. Ma Nascimbeni ci mette tantissimo del suo. Della sua rabbia esistenziale, della sue malinconie, dei suoi dubbi. E lo fa parlando di Pavese, Modigliani, Bukowski... uomini sbagliati forse, ma solo per il mondo che non ci piace. Non a caso accanto a questi ci sono il padre, ingombrante come non può non esserlo un uomo di quel lignaggio, e i ricordi struggenti della madre in un tempo che fu. E ne esce un lavoro di vera poesia. La Canzone d'Autore al massimo livello. Certo, non aspettatevi la voce di Paoli o il carisma di De Andrè. Ma dei grandissimi Nascimbeni in questo disco manifesta la stessa voglia di gridare sussurrando la propria voglia di vivere. I sogni di qualcosa che fu o forse non sarà mai. Forse non ne esce "la canzone più bella del mondo" (come si intitola un pezzo), ma certo quasi un'ora di balsamo per i cuori un po' raffreddati dall'età e dai tempi.
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