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Un tempo si chiamava aemulatio; poi, "arte allusiva"; oggi, "intertestualità". A prescindere dalle mode terminologiche, la cui successione risponde certo a nuove contingenze, nuovi canoni e a nuovi obiettivi della critica letteraria, il concetto che vi è sottinteso è che i libri chiamano altri libri, e che la scrittura è quasi sempre riscrittura. Il canone tende a essere un'entità persistente; lo scrittore che si vanti di aver inventato qualcosa di completamente inedito denuncia, più che la sua abilità di scrittore, le sue carenze di lettore. Una quindicina di studiosi ha deciso di studiare come i classici (per definizione paradigmi di letteratura) siano stati reimpiegati nel corso dei secoli. Ne nasce questo volume curato da Massimo Gioseffi, che spazia dal tardoantico a Gadda. Il testo è diviso in tre parti, corrispondenti ai tre grandi capitoli storici del riuso della classicità: l'età tardoantica e medievale, con il progressivo inabissarsi della memoria letteraria della classicità; il Rinascimento, con la sua riscoperta; e, infine, il Novecento, in cui l'ormai riacquisito senso del classico convive con la contestazione dell'antico. Da Ennodio a Servio, ai centoni, a Castiglione, a Milton, a Quasimodo, i testi vengono letti e riletti, come scrive Gioseffi, "perché generazione dopo generazione dovettero essere riadattati ai bisogni e a un sapere nuovi, pur rimanendo formalmente gli stessi". Non c'è mai nulla di nuovo sotto il sole, e anche in un momento di particolare crisi per l'umanesimo (è di questi giorni la notizia del taglio dell'80 per cento ai fondi per le humanities in Gran Bretagna), non è purtroppo banale ricordare che senza i classici non si può leggere nulla, né comprendere il presente.
Massimo Manca
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