Nel 1974 usciva presso la mitica "Biblioteca" Sansoni la traduzione italiana di questo saggio, pubblicato nell'originale inglese nel 1940 su "The Art Bulletin" e poi, in forma di libro, nel 1967 a New York. Ora quella stessa traduzione italiana esce nella collana "Testi e Documenti" della SE, benemerita nel tener viva la curiosità nel campo delle scienze umane. È l'occasione per i più giovani di imparare a conoscere un piccolo classico degli studi storico-artistici, per i più vecchi di tornare a riflettere su premesse, contenuti ed effetti dello stesso. L'autore, l'americano Rensselaer Wright Lee, aveva esordito come brillante comparatista con un articolo dedicato all'influsso del Cortegiano di Baldesar Castiglione sulle opere del letterato elisabettiano Edmund Spenser. Se si tiene conto di ciò, si comprende bene non solo l'orizzonte europeo, ma anche l'ampiezza della periodizzazione adottata nel saggio ora ristampato. Tra il classicismo italiano del Cinquecento e il classicismo francese del secolo successivo esiste una continuità che travalica ogni distanza spazio-temporale e che si manifesta nella maniera più chiara nella condivisione di alcuni principi estetici di base. Sta di fatto che, anticipando un interesse per le parole dell'arte oggi ampiamente diffuso, il saggio di Lee dedica i primi cinque dei suoi nove capitoli tematici a delineare la lunga storia di nozioni fondamentali quali quelle di imitazione, invenzione, espressione, fine utile o dilettevole, decoro. Radicate in Aristotele e nei grandi trattatisti antichi di retorica e poetica, tali nozioni conoscono un vigoroso rilancio nell'Italia rinascimentale per poi divenire patrimonio europeo attraverso la sistematica rielaborazione operata dagli intellettuali francesi del grand siècle. Esse conoscono sin dalle più lontane origini una stretta affinità tra espressione verbale ed espressione visiva. Perché l'oraziano ut pictura poesis potesse rovesciarsi in una solida teoria della pittura e in parte anche della scultura, bisognava però passare attraverso il pieno riconoscimento socio-culturale di queste stesse arti, che è cosa più vicina a noi che all'antichità classica. Non a caso la seconda metà del saggio di Lee, a partire dal capitolo sesto dedicato all'ideale del pittore letterato, punta decisamente sullo specifico figurativo sia che indaghi la fortuna artistica di un tema letterario particolare come Rinaldo ed Armida, sia che si interroghi, invece, sullo sviluppo di concetti quasi filosofici come quello cruciale di virtù visiva o quello, non meno importante, di unità d'azione. Il sistematico trasferimento di fatti e giudizi di radice poetica e retorica al campo limitrofo ma distinto delle vecchie arti del disegno costituisce uno snodo cruciale nella lunga e accidentata vicenda che ha portato, a metà Settecento, alla nascita dell'estetica moderna. Significativo allora che, al di là di ogni limite cronologico e linguistico precostituito, il gran nome di Lessing sia tra quelli che più di frequente escono dalla penna di Lee. La bella postfazione con cui Marco Maggi arricchisce questa ristampa del saggio dello studioso americano aiuta a comprendere questa apparente stranezza. Vi apprendiamo, tra molte altre cose importanti, la grande attenzione riservata da Lee a The New Laokoön di Irving Babbitt, un libro del 1910 che tanto contribuì a rilanciare l'interesse degli studiosi d'oltreoceano per le teorie dell'arte. La vocazione comparatistica cui si è accennato più sopra sfocia qui in un'ossessione per il confronto sistematico tra le diverse forme espressive, rispetto alla quale la nozione comune di lingua risulta ormai irrilevante, mentre prende peso sempre maggiore la difesa di certi contenuti della tradizione culturale europea. Con grande finezza, a conclusione del suo meditato intervento, Maggi osserva come, diversamente dall'Italia di Longhi e di Arcangeli, nell'America di Lee e di Panofsky "umano" e "umanistico" continuassero a suonare come sinonimi. Marco Collareta
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