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Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno
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Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno - Claudio Magris - copertina
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Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno

Descrizione


Il volume raccoglie un'ampia scelta della produzione saggistica di Magris tra il 1974 e il 1998. E' un itinerario che percorre territori ben conosciuti, ma attraversa anche zone nuove e inesplorate. I grandi scrittori hanno un ruolo centrale, ma ci sono anche libri di viaggio e d'avventura. Non mancano, infine, alcune riflessioni sull'attualità, su problemi di rilevanza morale e politica, su situazioni quotidiane affrontate con passione e ironia.
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Argomenti

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Venditore:

Dettagli

2001
Tascabile
4 maggio 2001
328 p.
9788811674870
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Indice


Le prime frasi del libro:

UTOPIA E DISINCANTO

Nel Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere Leopardi mostra la struggente vanità di attendere, alla fine di ogni anno, un anno più felice di quelli passati, anch'essi attesi ogni volta nella fiducia che avrebbero arrecato una felicità che invece non hanno mai portato. Quel breve testo immortale del grande poeta italiano, così inesorabile nella diagnosi del male di vivere, è tuttavia esente dal facile pessimismo apocalittico di tanti retori odierni, compiaciuti di annunciare continuamente disastri e di proclamare che la vita è solo vuoto, errore e orrore. Il dialogo leopardiano è invece pervaso da un timido amore per la vita e da una ritrosa attesa di felicità, che vengono smentiti dal succedersi degli anni ma continuano a vivere, con timore e tremore, nell'animo e fanno sentire il dolore e l'assurdità tanto più fortemente del pathos catastrofico.
Quei pensieri e quello sgomento dinanzi alla svolta dell'anno si affacciano con ben maggiore intensità quando a finire - e rispettivamente a iniziare - non è solo un anno e nemmeno un secolo, bensì un millennio. Il calendario sbandiera un'inflazione di anniversari e ricorrenze, dal giubileo millenario dell'Austria al bicentenario del Tricolore italiano al fatidico esordio del Duemila - simboliche svolte epocali, grandi Archi di Trionfo del Tempo, spettacolari scenografie del Progresso e della Caducità. Alla vigilia del Mille c'erano alcuni - ma meno numerosi di quanto spesso si ami credere - che aspettavano la fine del mondo; nei momenti più bui della guerra fredda si temeva l'apocalisse nucleare, l'incubo del day after. Alle soglie del Duemila non c'è alcun pathos della fine, ma certamente il senso profondo di una trasformazione radicale della civiltà e dell'umanità stessa e dunque il senso di un'indiscutibile fine non del mondo bensì di un secolare modo di viverlo, di concepirlo e di amministrarlo.
Già negli ultimi anni del secolo scorso, Nietzsche e Dostoevskij avevano intravisto l'avvento di un nuovo tipo d'uomo, di uno stadio antropologico diverso - nel modo di essere e di sentire - dall'individuo tradizionale, esistente da tempo immemorabile. Nel suo Übermensch Nietzsche non vedeva un "Superuomo", un individuo potenziato nelle sue capacità e più dotato degli altri, bensì, secondo la definizione di Gianni Vattimo, un "Oltre-uomo", una nuova forma dell'Io, non più compatto e unitario bensì costituito, com'egli diceva, da un'"anarchia di atomi", da una molteplicità di nuclei psichici e di pulsioni non più imprigionate nella rigida corazza dell'individualità e della coscienza. Oggi la realtà, sempre più "virtuale", è lo scenario di questa possibile mutazione dell'io.
Nietzsche stesso diceva che il suo "Oltre-uomo" era strettamente affine all'"Uomo del sottosuolo" di Dostoevskij. Entrambi gli scrittori scorgevano infatti nel loro tempo e nel futuro - un futuro che è in parte ancora tale pure per noi, ma in parte è già il nostro presente - l'avvento del nichilismo, la fine dei valori e dei sistemi dei valori, con la differenza che per Nietzsche, come ricorda Vittorio Strada, si trattava di una liberazione da festeggiare e per Dostoevskij di una malattia da combattere. Nell'inizio di millennio che è alle porte, molto dipenderà dalla scelta che la nostra civiltà farà tra queste due posizioni: se combatterà il nichilismo o lo porterà alle estreme conseguenze.
"Il vecchio secolo non è finito bene", scrive Eric J. Hobsbawm nel suo Secolo breve, aggiungendo che esso, per usare l'espressione di Eliot, finisce con una roboante esplosione e con un fastidioso piagnisteo. Altri vedono in questi cento anni soprattutto la terribilità - il "terribile secolo Ventesimo", il suo primato di ecatombi e di stermini, operati con una mostruosa simbiosi di barbarie e razionalità scientifica. Sarebbe tuttavia ingiusto dimenticare o sottovalutare gli enormi progressi compiuti nel secolo, che ha visto non soltanto masse sempre più vaste di uomini raggiungere condizioni umane di vita, ma anche un continuo estendersi dei diritti di categorie emarginate o ignorate e una presa di coscienza sempre più vasta della dignità di tutti gli uomini, presente anche là dove sino a ieri non si sapeva o non si voleva riconoscerla, anche nelle forme di vita e di civiltà più diverse dai nostri modelli.
È delittuoso dimenticare le atrocità del secolo di Auschwitz, ma non è lecito scordare le atrocità commesse nei secoli passati senza che la coscienza collettiva se ne accorgesse e ne avesse rimorso. Credere fiduciosamente nel progresso, come i positivisti dell'ottocento, è divenuto ridicolo, ma altrettanto ottuse sono l'idealizzazione nostalgica del passato e la magniloquente enfasi catastrofica. Le nebbie del futuro che incombe richiedono uno sguardo reso, nella sua inevitabile miopia, un po' meno miope dall'umiltà e dall'autoironia.
Quest'ultime mettono in guardia dalla tentazione di abbandonarsi al pathos delle profezie e delle formule epocali, che fanno presto a diventare comiche, come la famosa frase secondo la quale nel 1989 sarebbe finita la Storia, frase che già allora poteva trovar posto solo nello Sciocchezzaio di Flaubert. L'Ottantanove, all'opposto, ha scongelato la Storia rimasta per decenni in frigorifero e questa si è scatenata, in un groviglio di emancipazione e regressione, spesso unite come le facce di una medaglia. Il principio di autodeterminazione, che afferma la libertà, scatena conflitti sanguinosi che conculcano la libertà altrui; un altro esempio del corto-circuito di progresso e regresso è costituito dall'incremento economico e dallo sviluppo della produzione che provocano una diminuzione di occupazione, accrescendo il numero di coloro che sono esclusi da un tenore accettabile di vita e creando quindi le premesse, ammonisce Dahrendorf, per gravissime tensioni e conflitti sociali.

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Tino Cobianchi
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"Utopia e disincanto" è una corposa raccolta di articoli e saggi di Claudio Magris apparsi, tra il 1974 e il 1998, su giornali e riviste. Gli scritti si caratterizzano tutti per la lucidità e l'acutezza con cui affrontano i vari argomenti. Un primo gruppo di articoli analizza l'attuale condizione umana e storica. Claudio Magris affronta temi che riguardano la svolta di fine millennio, il ruolo della letteratura, la figura dell'intellettuale, l'identità culturale e il libero arbitrio. In "DALL'ALTRA PARTE. CONSIDERAZIONI DI FRONTIERA" lo scrittore triestino si sofferma sul significato e sul senso della frontiera. Magris, dopo aver rilevato come la linea di confine è "duplice, ambigua; talora è un ponte per incontrare l'altro, talora una barriera per respingerlo", considera la frontiera come "una necessità, perché senza di essa non c'è identità". Un altro filone di interventi riguardano il profilo di personaggi e la riscoperta di libri dimenticati. In questa parte Magris rievoca la figura di Ninon de Lenclos, donna colta e fascinosa del secolo XVII, il grande naturalista Linneo e l'opera di uno scrivano del seicento. Nel saggio in cui Magris parla "Della dissimulazione onesta" di Torquato Accetto, libro dalla prosa "trasparente e insondabile come un'acqua limpida ma profonda", sono fatte alcune belle considerazioni sul mestiere dello scrittore ("ciò che distingue il vero scrittore, anche piccolo, è la coscienza di non essere autore o creatore, ma un causale contenitore o un attento verbalizzatore delle epifanie che gli vengono donate") e sull'uso della verità ("la dissimulazione onesta copre temporaneamente la verità per proteggerla dai fraintendimenti e dalle deformazioni, per impedire che essa si manifesti in modo inopportuno, rovesciandosi così nel falso"). Le figure di grandi scrittori e poeti hanno un ruolo di primo piano nel libro. Claudio Magris traccia, rievocando diverse circostanze, un profilo delle opere e della vita di Borges, Junger, Goethe, Hugo, T. Mann, Dostoevskij, Goncarov, Hesse, Broch, Andr

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Claudio Magris

1939, Trieste

Scrittore, germanista e senatore (nella XII Legislatura) italiano. Ha insegnato letteratura tedesca prima presso l'Università di Torino, poi presso quella di Trieste. Impostosi giovanissimo all'attenzione della critica con Il mito Absburgico nella letteratura austriaca moderna (1963, elaborazione della tesi di laurea), è stato fra i primi a rivalutare il filone letterario di matrice ebraica all'interno della letteratura mitteleuropea con Lontano da dove, Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale (1971). Danubio (1986), forse il suo capolavoro, lo consacra come uno dei massimi scrittori italiani contemporanei. Con questo libro vince il Premio Bagutta nel 1986 e successivamente il Premio Strega nel 1997 con il romanzo Microcosmi e il Premio Principe delle Asturie nel 2004 nella...

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