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Con il frutto della vite il titolo non ha nulla a che fare, è invece l’inconsueto soprannome del giovanissimo Carmine Riccio, detto appunto “Uvaspina”, protagonista di questo felice e brillante lavoro della giovane autrice Monica Acito, cilentana di nascita e napoletana d'indole e adozione. Una bella storia, scritta anche meglio, promettente sin dall’inizio e invogliante all’andare avanti già dai primi capitoli; tutto il racconto fluisce come l’andamento di una marea, un andirivieni lesto, agile, fluttuante. Una trama ottimamente organizzata, personaggi incisivi, scolpiti con cura e rifiniti nei particolari, in questo racconto che concerne famiglia e fragilità, diversità e incuria, nobiltà e plebe, bullismo e omofobia. Tutto il romanzo è racconto di dolore, perciò storia forte, un testo potente che ferisce chi legge, fa male a volte, tanto sono colme le pagine di solitudine, di egoismo, di follia allo stato puro neanche tanto celata. E di tanto amore, fa male anche quello, talora. Dolore e amore tutto sulle spalle del giovane protagonista, in particolare l’amatissima sorella, Filomena detta Minuccia, che è frenetica come una trottola, le trottole hanno bisogno di uno spago per farle girare vorticosamente, e questo spago può avvolgersi dove non dovrebbe, fino a strozzare la felicità. Uvaspina è un’anima bella, tanta cara agli dèi da volerne incrinare in qualche modo la purezza, segnandolo con una escrescenza epiteliale, una voglia, e una persona così è la sola che riesce a intrecciare il suo dolore a quello della sorella, ne riconosce la maggiore fragilità per di più incolpevole, e allora sceglie, e sceglie di restare quello che in effetti è, un’anima bella, a dispetto di tutti, riesce nella mutazione del proprio dolore nell’ amore per la sorella, molto più e meglio di quanto potrebbe fare una qualsiasi mutazione epiteliale, una voglia matta sulla cute sotto l’occhio sinistro.
Forte e crudo come il mare che nel golfo si infrange sulla scogliera, la stessa che ha visto una famiglia riunita attorno a un corpo vuoto. Una famiglia inesistente eppure così indissolubilmente unita da un filo sottile, che va oltre ai legami di sangue. Un filo di sangue che lo strummolo disegna sui corpi violentati da credenze lontane, discriminazioni e odore di tabacco. Uno stile accattivante e scorrevole, una magistrale scelta lessicale che mi ha rapita. Una storia che fa riflettere sui rapporti familiari e sulla capacità di alcuni di "cadere sempre in piedi" a dispetto e discapito di altri. Non succede proprio così in alcune famiglie? Quanti legami morbosi che lacerano le esistenze ma dei quali, nonostante tutto, non possiamo fare a meno?
Quanto amore in questo libro che è passione e sentimento, l'amoore/odio tra due fratelli, quello della loro madre sempre pronta a "morire" per attirare un pò di attenzione su di sè, l'amore per la gente, per il primo sguardo che fa battere il cuore... Quanto dolore c'è in questo libro che è senso di inadeguatezza, voglia di essere, deisiderio di non essere, capacità di mettersi nei guai. Un romanzo di formazione potente e assoluto che indaga nella mente, che mette in risalto l'essere più intimo, che fa parteggiare decisamente e incondizionatamente per Uvaspina, costretto in un corpo non suo e che scopre l'amore per perderlo nel peggiore dei modi. Bello, bello, bello, da leggere per gustarne ogni parola di un linguaggio arricchito dall'uso del napoletano.
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