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Il vaso di Pandora. I mutamenti di un simbolo - Dora Panofsky,Erwin Panofsky - copertina
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Il vaso di Pandora. I mutamenti di un simbolo - Dora Panofsky,Erwin Panofsky - copertina

Dettagli

1992
Libro universitario
XV-170 p., ill.
9788806129620

Voce della critica

PANOFSKY, ERWIN, Tiziano. Problemi di iconografia, Marsilio, 1992
PANOFSKY, DORA / PANOFSKY, ERWIN, Il vaso di Pandora, Einaudi, 1992
recensione di Abbate, F., L'Indice 1993, n. 6
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)

La gara che da circa un trentennio vede impegnata l'editoria italiana nella presentazione al nostro pubblico dei "classici" della ricerca iconologica si arricchisce di sempre nuovi episodi. Sono recenti le traduzioni di due volumi di Erwin Panofsky, presso Einaudi e Marsilio. Organico, compiutissimo esempio di ricerca iconologica, applicata stavolta a un mito indagato nel corso del tempo e in diversi contesti culturali, il saggio einaudiano. Più sottilmente "contraddittorio" il "Tiziano" di Marsilio, che si avvale pure di una bizzarra prefazione di Augusto Gentili. Prefazione su cui occorrerà poi spendere qualche parola, non tanto per la sua alquanto superficiale tendenziosità-e usiamo il termine superficiale perché una tendenziosità seria non ci scandalizza affatto-quanto per i problemi generali che solleva su questioni tutt'altro che secondarie, che possiamo sintetizzare in un termine solo: la crisi dell'iconologia.
Intanto va detto subito che il prefatore finisce per trovarsi egli stesso in piena contraddizione con questo suo così amato 'livre de chevet'.
Così cosciente è infatti il Panofsky di quanto poco l'iconologia sia una sorta di "metodo globale", come pretenderebbe il Gentili, da premettere alla trattazione vera e propria dei suoi "problemi iconografici" un'introduzione che rappresenta un puntuale profilo (e sia pure non sempre condivisibile in tutto) dell'arte di Tiziano letta in chiave essenzialmente stilistica, con un'attenzione tale, e a volte così minuta, ai valori puramente formali da scandalizzare certamente gli oltranzisti dell'iconologia a tutti i costi.
Questa sintetica monografia su Tiziano spazia dall'indagine stilistica a problemi di carattere biografico e filologico, tratteggiando altresì un efficace ritratto della personalità del pittore, anche quella, extra-artistica, di accorto e spregiudicato affarista. Tanto da indurre Jacopo Bassano a ritrarlo nelle vesti poco lusinghiere di avido cambiavalute nella sua "Cacciata dei mercanti dal tempio".
Le osservazioni più calzanti sono proprio quelle che investono la sfera stilistica. Ecco allora le puntualizzazioni sul colore di Tiziano (le fiamme dei candelabri, nella "Incoronazione di spine" di Monaco, che paiono mutarsi in "petali di delicati fiori bianco-rosati") o quelle sullo spazio costruito per via di "un'organizzazione progressiva di forme colorate" e sulle varie fasi stilistiche del pittore, di cui l'ultimissima viene definita una "monocromia variopinta". Fino ai rapporti di Tiziano con l'arte antica e agli influssi esercitati sulla sua pittura dall'ambiente artistico del tempo, e non solo veneziano.
Certo, non è questa introduzione la parte più originale del libro, ma è comunque significativo che Panofsky la ritenga essenziale per "collocare" in un contesto non sfuggente i suoi "problemi iconografici", che risulterebbero altrimenti poco organici e come disancorati dall'arte e dalla personalità di Tiziano. Il fatto stesso che quella introduzione si apra con il richiamo alla ben nota leggenda di Sant'Agostino che in riva al mare medita sul mistero della Trinità, spiega la scelta di Panofsky di collocare queste sue indagini nella sfera di vere e proprie 'nugae' - e sia pure con tutta la ricchezza di riferimenti, il respiro, l'erudizione che gli sono consueti- nel grande "mare" dell'arte di Tiziano; anzi, per dirla con le parole stesse della sua metafora agostiniana a "lasciar stare l'acqua e limitarsi a raccogliere sassolini dalla forma curiosa, ricci, conchiglie e stelle di mare".
La ricerca iconografica di Panofsky si snoda sui temi più vari trattati da Tiziano, dalla teologia e l'iconografia sacra ai recuperi di tradizioni medievali e nordiche, al tempo (e lo studioso nota come il tema delle "tre età" della vita umana sia "uno dei principi ordinatori" della pittura tizianesca), alla tematica neoplatonica dell'amore -"si può dire che i... dipinti profani", ridiamo ancora la parola a Panofsky, "costituiscano implicitamente un continuo commentario sull'amore"-alle sue frequentazioni letterarie, in particolare con la poesia di Ovidio. "Di solito, quando desiderava davvero raccontare una favola" dice ancora Panofsky "Tiziano trovava la propria fonte testuale d'ispirazione in Ovidio". Vale la pena di completare la citazione, anche se un po' lunga, per i problemi che solleva e su cui torneremo: Tiziano "dovette sentire un'intima affinità nei confronti" di Ovidio. E fu proprio questa intima affinità a permettergli d'interpretare i testi ovidiani "alla lettera e al tempo stesso liberamente, con minuziosa attenzione ai dettagli e insieme con uno spirito d'illimitata inventiva. Tra i grandi artisti interessati alle narrazioni mitologiche, nessun altro si è fondato così largamente su Ovidio e da una singola frase del testo ha tirato conclusioni visive di tale rilevanza".
Infine il rapporto di Tiziano con i suoi committenti, papa Paolo III e soprattutto Carlo V, il sodalizio col quale acquista toni veramente eccezionali.
Condotto con il taglio un po' particolare di una sorta di concatenazione di "schede" sui singoli dipinti, il volume panofskiano vive nel "filo rosso" della ricerca di significati stringenti per le varie opere tizianesche. In certi casi, come per il cosiddetto "Amor sacro e profano" della galleria Borghese, si è di fronte alla riproposizione di un "classico" della ricerca di Panofsky, e il risultato, al di là di una lunghissima discussione che su questo dipinto si è sviluppata nel tempo, pare ormai acquisito: il quadro raffigura le due Veneri, quella "celeste" e quella "volgare".
Ragioni di spazio ci impediscono di dar conto partitamente delle idee, degli spunti, delle conclusioni dello storico tedesco, come di dar conto di dissensi specifici su alcune di queste conclusioni, come per il ritratto di Paolo III con i nipoti Alessandro e Ottavio Farnese oggi nel museo napoletano di Capodimonte.
Preferiamo perciò accennare a un problema di fondo che le ricerche iconologiche in genere, e quelle panofskiane in particolare, ci paiono sollevare e che non sono estranee a quella crisi dell'iconologia cui si accennava all'inizio.
L'opera di scavo delle fonti, letterarie, filosofiche, teologiche, spesso eruditissima, quasi sempre necessaria per individuare il soggetto o il significato di un dipinto, rivela in molti casi che alla base di certe iconografie vi sono delle fonti a volte del tutto accessibili a volte invece assai sofisticate. Noi non siamo sempre particolarmente informati di quale era la cultura, diciamo extrafigurativa, di un pittore, anche a volersi limitare ai maggiori. Nel caso di Tiziano sappiamo che i suoi rapporti culturali erano diramati, le sue frequentazioni ampie e coltivatissime e capillari i suoi interessi letterari (Puppi). Che fosse un lettore attento e appassionato di Ovidio, come Panofsky ci indica, pare molto probabile; doveva inoltre possedere una certa cultura neoplatonica, allora assai diffusa, almeno nelle sue linee generali, anche al di fuori della cerchia ristretta dei filosofi e degli umanisti: anzi, "l'aria stessa che Tiziano respirava... era satura della dottrina neoplatonica dell'amore e della bellezza". È infine ragionevole pensare che anche un'opera come gli "Emblemata" di Andrea Alciati fosse del tutto familiare a Tiziano se la cosiddetta "Educazione di Cupido" della gallera Borghese è, secondo la precisa lettura del Panofsky, nient'altro che una "variazione" sull'emblema n. 110 dell'Alciati stesso.
Riconosciuto tutto questo, c'è però da dire che quando ci troviamo di fronte, come è il caso-tanto per dirne una-dei dipinti eseguiti per il camerino di Alfonso d'Este a Ferrara, a fonti molto sofisticate c'è da dubitare che la definizione del programma iconografico risalga al pittore stesso.
Questo vale anche per le raffigurazioni sacre, a meno di non voler ipotizzare per Tiziano una cultura così enciclopedica da permettergli di padroneggiare le più diverse tematiche.
Uno dei rischi (non sempre evitati) della ricerca iconologica è appunto quello di finire per limitarsi a un gioco erudito fine a se stesso, senza che si scenda a fondo nella ricerca dei possibili mediatori o suggeritori di determinate scelte. In altre parole, il rischio è di fermarsi alla pura identificazione dei significati, senza rapportarli a situazioni, ad ambienti, a persone, anche a stati d'animo concreti. Senza socializzarli, insomma.
Non paia questa una questione di poco momento: un dipinto nasce sempre dalla dialettica tra i sentimenti, le passioni, le "forme" dell'artista (che nessun committente fu mai in grado di imporre o sottrarre all'artista medesimo) e i bisogni, le aspirazioni, i "contenuti" del committente; per cui se vogliamo ricostruire veramente i significati che quelle opere ebbero nel loro contesto, se vogliamo, in sintesi, ricostruire un pezzo, comunque lo si voglia giudicare, di storia, occorrerà per prima cosa recuperare i termini reali di quella dialettica in cui ogni protagonista dovrà rioccupare il proprio posto preciso.
Mi si permetta a questo punto un breve commento alla lunga prefazione di Augusto Gentili. Dandole un taglio così volutamente provocatorio, quasi da Gianburrasca della storia dell'arte -sia nella condanna senza appello della critica stilistica che nella rievocazione di come l'iconologia venisse accolta in Italia dai settori critici allora dominanti-lo studioso si prefiggeva, immagino, lo scopo di muovere le acque stagnanti "del conformismo, dell'unanimismo, del pluralismo senza passioni", rilanciando a un tempo l'iconologia, piombata ormai, come il Gentili stesso lamenta, in una specie di stato comatoso.
Su questo ha pienamente ragione: la necessità di un bilancio, di una verifica, di una sistemazione o anche di una rivitalizzazione degli studi iconologici è urgente e auspicabile. Ma una riflessione del genere non può che partire da alcuni principi irrinunciabili. Confesso, innanzitutto, di non saper distinguere bene tra un pluralismo senza passioni e un pluralismo appassionato, essendo, mi pare, il pluralismo senza aggettivi un irrinunciabile valore di per sé, in tutti i campi, senza il quale non si ha nessun progresso e nessuna vitalità culturale. Secondo: quando si dissente radicalmente da una tradizione critica, corre l'obbligo per lo meno di conoscerla, meglio se a fondo, ma almeno a sufficienza.
Una cosa è infatti dissentire da una determinata tradizione, altra cosa è ridurla al livello di barzelletta. Tacciare il più grande storico dell'arte del Novecento (parlo naturalmente di Roberto Longhi) di fare della mera "stilistica di degustazione" o peggio della volgare "promozione di mercato" è operazione che si commenta da sola. Parlare inoltre di "censura" longhiana nei confronti dell'iconologia significa scordare che proprio da Roberto Longhi veniva l'avvertimento che da qualunque estetica si parta "si può toccare terra".
Se il prefatore ha tutto il diritto di dettare un atto di fede in favore di un'iconologia quale "metodo globale per una storiografia complessa, costruita sull'intreccio di molte discipline e molte filologie", affermando la giusta esigenza di scongiurare la "separatezza" in nome di un troppo drastico "specifico" della disciplina storico-artistica, non occorre scordare che è lo stesso Panofsky, si è visto, a rifiutare all'iconologia lo 'status' di un "metodo globale".
E del resto il Gentili stesso ne pare cosciente quando se ne esce con questa affermazione sui limiti dell'iconologia quale "storia di idee esclusive che di rado apre spiragli sulla storia della mentalità, del costumi, dei comportamenti, di rado varca la soglia della storia materiale degli uomini, pubblica e privata, fatta invece di politica e di economia, di devozioni e di affetti". Un'affermazione da sottoscrivere in pieno, ma che fa a pugni con quest'altra apodittica dichiarazione di fede in un'iconologia come "strumento di verità oltre che metodo di conoscenza, come scelta morale oltre che garanzia di un'attraente poligamia culturale".
Lasciamo gli "strumenti di verità" agli stati etici e agli integralismi di ogni colore. Non so come Panofsky, fuggito proprio da uno "stato etico", avrebbe giudicato questa affermazione. Comunque, malgrado forzature che non mancano n‚ nel Tiziano n‚ ne "Il vaso di Pandora", è studioso troppo cosciente del fatto che l'iconologia e sì strumento affascinante ma, come l'arco di Ulisse, difficile da maneggiare per non avere sempre sullo sfondo l'idea che se ricostruire il passato è anche un po' reinventarlo, il problema è di equilibri e di limiti, i soli a poter impedire che i fatti vengano calpestati e le autonomie travolte. E vorrei chiudere questa rassegna sui "problemi iconografici" tizianeschi citando almeno un esempio (e mi riferisco all'esame dell'"Allegoria della Prudenza" di Londra) di come si possa magistralmente contestualizzare il soggetto, il significato ed anche la "forma" di un dipinto, con un collegamento stringente ai sentimenti del pittore. Dando anzi un intrigante spaccato della vita e dello passioni umane di Tiziano. Un esempio convincentissimo di "poligamia culturale" che è l'unica delle opzioni di Gentili che Panofsky avrebbe potuto, a mio avviso, accettare senza riserve.
Minori problemi presenta per il recensore l'altro volume panofskiano, "Il vaso di Pandora". Il saggio, relativamente breve, analizza con grande ricchezza di dati le implicazioni figurative (indagate soprattutto, è naturale, sul versante iconologico) del mito di Pandora, nelle sue versioni contrastanti, nella sua fortuna e anche nel suo svilupparsi nei diversi rami della cultura, e nel corso del tempo dal medioevo al Rinascimento a Goethe, fino al "guazzo" di Max Beckmann, il cui vaso di Pandora," piccolo contenitore... in cui è accumulata un'incalcolabile quantità di energia che conflagra in un frantumato ammasso di forme e colori" diviene quasi il simbolo della guerra atomica, il male peggiore per l'umanità tra quelli usciti dal fatale vaso.
Come accade per molti miti, gli intrecci, gli ambiti, le utilizzazioni hanno assunto gli aspetti più vari e lo spaccato ricostruito da Panofsky (che provvede a mettere ordine nell'intrico delle versioni stesse del mito) illumina momenti importanti nella storia della cultura: basti citare, tra tutti, la relazione instaurata, ad opera dei Padri della Chiesa, tra Pandora ed Eva, con l'intento di avvalorare la dottrina cristiana del peccato originale con un parallelo tratto dal mondo classico.
Il saggio, che si apre con una citazione di Jane Harrison ("non c'è mito più noto di quello di Pandora, ma forse nemmeno più equivocato") intende programmaticamente, ed è il suo pregio principale, giocare sui vari registri, sulle certezze come sulle ambiguità, sulle sfaccettature di un personaggio ora considerato portatore di tutti i mali e ora, invece, portatore di beni, ora infine percepito "come struggente compenetrazione di benedizione e di maledizione".

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Conosci l'autore

Erwin Panofsky

1892, Hannover

Panofsky Erwin è stato uno storico dell'arte tedesco naturalizzato statunitense e massimo teorico dell'iconologia.Studiò nelle università di Friburgo, Monaco e Berlino e si laureò a Friburgo nel 1914 con una tesi sugli scritti teorici di Dürer. Del 1924 è La scultura tedesca dall'XI al XIII secolo e Idea. Contributo alla storia dell'estetica. Nel 1926 è nominato professore di storia dell'arte presso l'università di Amburgo dove vi insegnò fino al 1933, anno in cui, a causa del nazismo, fu costretto a lasciare la Germania.Nel 1927 pubblica La prospettiva come forma simbolica.Rifugiatosi negli Stati Uniti nel 1933, insegnò prima all'Università di New York poi a Princeton dove rimase, presso l'Institute...

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