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Questo libro è sicuramente particolare. Si tratta di una sorta di autobiografia, di una periodo sicuramente cupo e problematico dell’autore, da cui però Moody ha saputo rialzarsi. Il fatto però è che il libro non è solo una autobiografia; c’è tutta anche una serie di digressioni/riflessioni che prendono spunto da un racconto di Hawthorne e da un avo di Moody stesso. Si parla quindi di letteratura, di storia americana, di etica, di morale,e chi più ne ha più ne metta. Il risultato è un bel libro, non il mio preferito di Moody, ma sicuramente un libro godibilissimo. Almeno a me è risultato molto forte il contrasto tra le parti in cui narra il recente passato della vita dell’autore e le parti in cui si torna indietro nei secoli, ma questo è forse spiegabile anche con il fatto che questo libro, come dichiara l’autore stesso, non è stato scritto linearmente dall’inizio alla fine, ma è stato invece scritto facendo continuamente avanti ed indietro. Il messaggio comunque che secondo me traspare dal libro è un messaggio di grande ottimismo: anche se uno è scivolato molto in basso, in termini di dipendenza da alcol e droga, se c’è la volontà e l’opportunità, uno ne può sempre uscire, magari anche alla grande, vedi il notevole scrittore che è diventato Moody, che per il resto non è la persona che riesce in tutto quello che fa: era negato per gli sport, non andava molto bene a scuola, non riusciva a tenere a lungo un lavoro, ecc..
La biografia dei propri stati mentali, delle emozioni e delle oppressioni, scritta come un flusso di coscienza a partire da un vecchio racconto del puritano Hawthorne (Il velo nero del Pastore") ln cui cupo protagonista vive tutta la propria esistenza riparandosi ostinatamente il volto dietro un velo nero. Un antenato, che forse ha ispirato il racconto, che potrebbe aver fatto lo stesso dopo essersi macchiato, giovanissimo, di una colpa (o di un delitto?) orribile. La discesa lungo le radici del proprio albero genealogico alla ricerca di quella possibile parentela, diventa un'esplorazione, a tratti dolorosa, del proprio essere, con le sue giovanili fragilità, il suo bisogno di indipendenza ma anche di radicamento, di riconoscimento e, spesso, di aiuto, in un dualismo difficle da risolvere tra voglia di ribellione e bisogno di normalità. Moody narra una ricerca di sè con lo spirito di un antropologo che si spinga su una canoa malferma nell'entroterra di un continente poco esplorato, che potrebbe regalare entusiasmanti scoperte ma anche orribili verità. Non fa analisi,lo scrittore, non è ansioso di spiegarsi, non cerca dei "perchè", ma dei "cosa", e,inevitabilmente, non tutto quello che scopre gli piace. Nelle vene non gli scorre sangue di eroi o di artisti talentuosi, e lui quest'idea la accarezzava all'iniziio del suo viaggio, ma di americani "normali", spesso mediocri, e ad un certo punto contempla (forse sono le pagine più deboli) la possibilità di calarsi lui stesso un velo sul volto, per non vedere le fragilità altrui e vergognandosi della propria, soprattutto quella ormai superata dell'alcolismo, della solitudine e della disperazione, che lo portò, prima dei venticinque anni, a sperimentare la degenza in un manicomio. E' un libro sincero fino all'aggressività, che esprime un continuo bisogno di dire e ricevere ascolto, autoesplorativo più che autoanalitico. Non sempre convince, la narrazione del viaggio nel Maine con il padre conosce troppi frazionamenti e titubanze, ma è da leggere.
uno tra i pochi libri che a leggerli (e chissà poi a rileggerli...) qualcosa in noi cambia per sempre.
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