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Descrizione


Quando il matrimonio di Mario, un padre quarantenne, va in crisi, Luca, il figlio adolescente, si allontana da casa e intraprende, tra piccole illegalità e colpi di testa, una "carriera" di giovane turbolento e ribelle. Finché la possibilità di avvicinarsi e riconciliarsi non appare a entrambi illusoriamente a portata di mano. Un romanzo di padri e figli sull'ineluttabilità dei destini che gli adulti di oggi preparano per le generazioni a venire.
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Dettagli

2000
9 febbraio 2000
194 p.
9788817863087

Voce della critica









Cortellessa, Andrea, Sul vuoto. Il lamento di ci• che non c'Š,
Pincio, Tommaso, Lo spazio sfinito, Fanucci, 2000
Frasca, Gabriele, Lime, Einaudi , 1995
Scarpa, Tiziano, Cos'Š questo fracasso? Alfabeto e intemperanze, Einaudi , 2000
Nori, Paolo, Bassotuba non c'Š, Einaudi , 2000
Frasca, Gabriele, La scimmia di Dio. L'emozione della guerra mediale, costa & nolan , 1996
Bugaro, Romolo, Il venditore di libri usati di fantascienza, Rizzoli , 2000
Battig, Simone, Sul nulla, Theoria, 1999
segnalato in rassegna bibliografica di Cortellessa, A. L'Indice del 2000, n. 07

Come mai lo spazio è sfinito? C'è una generazione di scrittori che negli ultimi anni ha preso a tematizzare una dimensione, quella del Vuoto, certo non nuova all'immaginario letterario; ma che oggi è come se si fosse deciso di affrontare di petto (nulla conta, naturalmente, che sia per definizione impossibile). Come dice "Neal Cassady" a "Jack Kerouac" - due dei personaggi dello Spazio sfinito, di Tommaso Pincio, uscito nella collana "AvantPop" di Fanucci -, quando questi ha accettato l'impiego in orbita solitaria per la Coca Cola Inc.: "tu e il Vuoto finalmente soli, uno di fronte all'altro per mettere in chiaro ogni cosa". Fortunatamente, ben poco si metterà in chiaro; ma le rêveries del personaggio di Kerouac - isolato nella sua cellula di miele lanciata nello spazio - si iscrivono con forza, d'ora in poi, in una storia della figurazione malinconica di fine millennio.
Piace farla iniziare, questa storia, una trentina d'anni fa: con una certa scena del 2001 di Stanley Kubrick. Da mesi è in volo verso Giove l'astronave inviata per indagare sui misteriosi messaggi giunti sulla Luna. La abitano, vigili, solo due cosmonauti, sempre assistiti dal finora fedele computer di bordo hal 9000. Gli altri membri dell'equipaggio sono in animazione sospesa. Uno dei due astronauti è ripreso mentre fa jogging lungo la rampa del corpo centrale dell'astronave: un grande anello la cui rotazione simula la gravità. Corre in avanti ma in realtà il suo percorso è ciclico, anulare - teoricamente infinito. È il giorno del suo compleanno: così hal proietta per lui su uno schermo gli auguri preregistrati dalla famiglia a mesi, e miliardi di chilometri, di distanza. Nessuna parola. Solo la musica dolcemente kitsch di un adagio di Kha∞aturjan.
Quando arriva questa scena, ogni volta che si rivede 2001, si stringe tutto il rattrappibile: reazione pavloviana che rende difficile spiegare cosa ci sia di tanto struggente . C'è la solitudine, certo; la fredda e insieme pungente abolizione della felicità, e della stessa aspirazione alla felicità, che ogni missione che ci accolliamo comporta. Ma il punto è un altro. L'uomo sull'astronave è diviso dal Vuoto assoluto solo da un sottile diaframma metallico. Ma pensare quel Vuoto in silenziosa attesa all'esterno non può che richiamare l'infinitamente più piccolo Vuoto interno alla nave: quello che lui insensatamente percorre di corsa - senza mai arrivare da Nessuna Parte. Quella scatola, poi, ne contiene un'altra: perché il Vuoto della nave da qualcuno è abitato, in realtà - da lui stesso, cioè. Ma allora è dato sospettare che sia Vuota pure quell'altra, minuscola scatola: e che siano tre i Vuoti (quello dello Spazio, quello della Nave, quello del Corpo), separati l'uno dall'altro da insignificanti diaframmi.
Il suo motto, questa generazione lo può rubare a una poesia di Gabriele Frasca: "giunto al frigo l'aprì, non c'era molto, / solo l'austerità delle lamiere / d'alluminio, riempì d'acqua un bicchiere, / restò a guardarlo, ed insipido il volto / galleggiò un po', poi si mise in ascolto, / niente, ovviamente, poteva sedere / ora, tranquillo, frugarsi, vedere / dentro, più dentro, ecco, non c'era molto". Quello che ci annienta è l'essere ormai giunti a toccare con mano il Niente che ci abita - il "solido Nulla" di Leopardi. Lo spazio è sfinito, infatti, perché abitato dal Vuoto. Strutturalmente insidiato, in ogni sua minima parte, dal Nulla. Quello che al Kerouac di Pincio - turbato dall'assoluta assenza di stelle nel "piano nerocosmo specchiante" di là dall'oblò - si manifesta con uno strano rumore, "il Mugolio del Tutto". Il lamento interminabile di ciò che non esiste. In 2001 l'altro astronauta - quello che prosegue la sua Odissea - alla fine incontrerà Qualcosa. Ma io sto con l'astronauta malinconico - quello che corre in circolo, quello al quale viene spietatamente negata ogni Trascendenza. Se non c'è nessuna Meta è perché Dio - contrariamente a quanto diceva Einstein - è proprio Colui Che Gioca A Dadi.
Uno dei motti ironicamente gnomici che punteggiano Lo spazio sfinito recita così: "Le donne sono portate alla sparizione". Si veda la Teoria delle aureole, doloroso punctum nel recente Cos'è questo fracasso? di Tiziano Scarpa (cfr. "L'Indice", 2000, n. 6). Come in un vecchio Hitchcock, The Lady è, semplicemente, colei che Vanishes: la donna che non si trova di Leopardi - quella con cui si sogna di "fare all'amore col telescopio" (nell'autocommento alla canzone Alla sua Donna): la Rosina perduta di Delfini o la Bassotuba - che naturalmente non c'è - del suo nipotino Paolo Nori (cfr. "L'Indice", 2000, n. 5). Neoplatonismo? Esistenzialismo, forse (nuovo désir d'être sartriano)? Solo in negativo. La nostra epoca - ce l'hanno insegnato il Baudrillard dello Scambio simbolico e la morte e il Virilio dell'Estetica della sparizione - è quella della derealizzazione. Le vicende della Storia hanno decretato la Morte della Realtà. Ma, più che di un "delitto perfetto" (Baudrillard), si ha il sospetto che si sia trattato di un suicidio. Le Cose, Sfinite, non ce l'hanno fatta più a Essere. A noi restano solo i loro simulacri: gli specchi con i quali ci confonde e ci inganna la Scimmia di Dio, cattivo demiurgo gnostico che macchina sapiente le leve della falsificazione mediale. In quest'estinzione del reale, ultima e postrema forma di realismo è allora, forse, quella che rappresenta le superfici specchianti (come la bocca di Marylin nello Spazio sfinito): gli Schermi lucenti che, nell'avvolgere il Nulla, ci rimandano insolenti l'inganno più irridente, la più intollerabile delle immagini. La nostra.
Di questo Realismo della Derealizzazione si capisce come parametri fondanti non possano essere né il Rispecchiamento lukácsiano né la Negazione adorniana. Il nitore figurale dell'immagine (come nell'apparente quotidianità di certo Magritte tardo, o di tanta parte della produzione di Hopper) si sposa alla coscienza acuta di un elemento sfuggente, e al limite enigmatico, della Realtà rappresentata. Ossia precisamente alla sua qualità residuale, fantasmatica, irrigidita in calco di se stessa. Ogni Descrizione sarà Descrizione di una Descrizione; mentre l'anelata Realtà si allontana indefinitamente nella copia della copia di se stessa. Penso ai recenti romanzi "vuoti" di autori come il Romolo Bugaro del Venditore di libri usati di fantascienza, o il Simone Battig dell'emblematico Sul nulla (cfr. "L'Indice", 2000, n. 4): per i quali vale la definizione (di Marco Belpoliti, su "Alias" dello scorso 18 marzo) di "scrittori a bassissima definizione", "che ottengono il massimo del potenziale narrativo ricorrendo al minimo, sino al limite dell'elisione, dell'atonale o del silenzio".
C'è una trappola, naturalmente. Tutto questo rammenta l'estetica sentimentale del primo Romanticismo: il vuoto ci addolora, sì, ma questo dolore si può capovolgere in piacere algolagnico, in funzione di un nuovo incanto, di una nuova stupefazione (ciò che farebbe il gioco della Scimmia). È la capriola cara ai mistici del Nulla, ai virtuosi della teologia negativa: dove l'annihilatio è premessa e condizione dello spossessamento rituale. A questo pericolo lo scrittore può rispondere nel modo più antico, e insieme sempre nuovo: cioè inventando una lingua - che vuol dire un pezzo di realtà, seppur personale. Come fa Pincio esponendo la sua lingua "bianca" e senza alcuna marca contrastiva (al punto che qualcuno, al suo apparire, disse malevolmente - senza capire che aveva colto la vera novità di questo scrittore - che sembrava la lingua di una traduzione: certo, la traduzione di un testo anteriore che però non c'è) "al gelo dell'inverno, così che un sottile strato di ghiaccio composto di minutissimi granuli biancastri, la galaverna, coprisse tutto". Dentro quel freddo scorre inapparente un brivido caldo, "sempre sul punto di liquefare il racconto". È proprio così: lo sa chiunque abbia sentito almeno in un'occasione la pelle del volto indurirsi a bassissima temperatura. Viene da piangere; e se solo si osa farlo la pelle fa male fino a che sembra volersi spaccare, addirittura. Quel dolore è il segno che è venuto il momento di volare. Finalmente liberi nel Vuoto.

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Conosci l'autore

Romolo Bugaro

1962, Padova

Laureato in Giusprudenza svolge la professione di avvocato a Padova. La sua scrittura è spesso una impietosa fotografia del ricco Nordest italiano e della buona borghesia che vi abita. Ha pubblicato con numerosi editori romanzi e saggi. Della sua scrittura ha detto: «Nel mio caso, ciò che si è rivelato fecondo per la scrittura non sono state le storie personali incontrate, i tanti drammi umani di questo o di quell’assistito (che peraltro non utilizzerei mai), quanto un respiro più profondo della realtà che mi sono ritrovato a poter ascoltare: una particolare forma di ferocia sottesa a moltissimi rapporti, che m’è riuscito ormai di mettere a fuoco, e sulla quale credo che lavorerò a lungo.»

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