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Venivamo tutte per mare - Julie Otsuka - copertina
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Venivamo tutte per mare

Descrizione


"Da anni" ha dichiarato Julie Otsuka, "volevo raccontare la storia delle migliaia di giovani donne giapponesi - le cosiddette "spose in fotografia" che giunsero in America all'inizio del Novecento. Mi ero imbattuta in tantissime storie interessanti durante la mia ricerca e volevo raccontarle tutte. Capii che non mi occorreva una protagonista. Avrei raccontato la storia dal punto di vista di un 'noi' corale, di un intero gruppo di giovani spose". Una voce forte, corale e ipnotica racconta dunque la vita straordinaria di queste donne, partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare da quel primo, arduo viaggio collettivo attraverso l'oceano. È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l'arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l'esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l'attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici. Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall'autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua.
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Dettagli

2012
12 gennaio 2012
142 p., Brossura
9788833922751

Valutazioni e recensioni

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Valentina
Recensioni: 5/5

Un libro che ti coinvolge, assorbe il tuo pensiero e ti fa vivere in prima persona ogni storia, ogni aspetto, ogni sentimento, ogni timore provato dalle protagoniste. Questo libro fa capire fin dove arriva la capacità di adattamento, soprattutto dopo l'esser state disilluse, di queste donne.

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laguby
Recensioni: 5/5

Una storia vera che tocca tutte le corde del cuore: la speranza, la nostalgia, lo stupore, il disincanto, la violenza, il dolore, il silenzio, la paura? Una narrazione corale per dar voce alle tante donne giapponesi andate in sposa, agli inizi del Novecento, ai connazionali espatriati negli Stati Uniti; giunte - per mare, appunto - in una realtà di cui ignoravano lingua e costumi? Un grande affresco per raccontarne le vite, il riscatto attraverso figli e nipoti, la presenza "trasparente" nella società americana. L'autrice sceglie di scrivere in prima persona plurale: è il "noi" delle protagoniste, certo, ma è anche il noi di chi legge, per interrogarsi - ancora una volta - sul destino di tante donne.

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Carol
Recensioni: 2/5

La parte veramente interessante è la descrizione delle differenze di pensiero, stili di vita e abitudini fra i giapponesi immigrati e il popolo americano, lo smarrimento delle donne appena sbarcate in un mondo completamente diverso dal loro. Per il resto, non c'è approfondimento storico, descrizione di sentimenti, coinvolgimento. L'espediente del raccontare in prima persona plurale le vicende e di ripetere le singole esperienze quasi sotto forma di elenco, in certi punti conferisce alla narrazione una tale pesantezza da risultare odioso. Allo stesso tempo non permette all'autrice di approfondire l'aspetto emozionale dei singoli personaggi e il tutto rimane piuttosto freddo e distaccato, relegando il lettore al semplice ruolo di osservatore. Infine, ho avuto la sensazione che il romanzo fosse incompleto, s'interrompesse in un punto decisivo: a mio avviso un'occasione persa di raccontare un altra vicenda storica poco nota, quella della vita da "deportati" dei giapponesi dopo Pearl Harbour.

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Voce della critica

  "Gli occidentali entrano in casa con le scarpe, hanno il corpo enorme ricoperto di peli e credono che il contrario di bianco non sia rosso, ma nero. Addirittura leggono i libri sfogliandoli da sinistra verso destra: sono esseri incomprensibili". Così mormora in notturna un gruppo di donne giapponesi stipate sulla stessa nave, pronte ad andare in spose agli americani intravisti in foto. Sono le prime, in assoluto, a emigrare dal loro paese e percorrono la lontananza striando il mare con tremori e fantasmagorie. L'occidentalismo è il logico complemento dell'orientalismo. È Julie Ostuka che ci contorce lo sguardo, scoprendo le croste dei nostri cliché. Lo fa in Venivamo tutte per mare, romanzo il cui titolo originale era The Buddha in the Attic, ma alla soglia del misticismo urbanizzato l'editore ne preferisce una diversa. L'attenzione del lettore italiano è subito guidata verso la voce narrante, verso la voce collettiva che fa la forza di questo libro piccolo e inebriante. La nave va e il coro femminile ondeggia, mentre descrive se stesso come una distesa omogenea di capelli neri, piedi piatti e verginità. L'origine delle donne è comune e anche il destino pare lo stesso: la geografia impasta insieme le voci e le vite. Questo popolo di spose respira all'unisono, ma qualche volta il coro si sgrana, liberando singolarità. Eccone una: "Sulla nave tenevamo i ritratti dei nostri mariti dentro minuscoli medaglioni ovali che portavamo appesi al collo con lunghe catene. Li tenevamo dentro borsette di seta, dentro vecchie lattine di tè, dentro scatole di lacca rossa e dentro le spesse buste marroni con le quali erano stati spediti dall'America. Li tenevamo dentro la manica del kimono, che toccavamo spesso, per assicurarci che ci fossero ancora. Li tenevamo infilati tra le pagine di Venite, giapponesi!, Consigli per andare in America, Dieci modi per far felice un uomo, e di vecchi e logori volumi dei sutra buddisti, e una di noi, che era cristiana, e mangiava carne, e pregava un dio diverso dai capelli lunghi, teneva il suo fra le pagine della Bibbia di re Giacomo. E quando le chiedevamo chi le piacesse di più – l'uomo della fotografia o il Signore Gesù – lei sorrideva misteriosa e rispondeva: 'Lui, naturalmente'". Va auscultata con attenzione questa voce collettiva. Stupisce, perché invece di articolare una trama srotola un elenco, un elenco di elenchi, e così trasmette un'ipnotica declinazione dell'esperienza. C'è l'elenco delle prime notti di nozze e quello dei parti, l'elenco dei figli e delle case, c'è l'elenco dei lavori e quello delle amicizie; l'elenco delle violenze, anche. La lista è una vertigine, secondo Umberto Eco, che così descrive l'effetto inquietante prodotto da una potenzialità infinita: "La lista suggerisce quasi fisicamente l'infinito, perché di fatto essa non finisce, non si conclude in una forma" (La vertigine della lista, Bompiani, 2009). Eppure la somma di tante vertigini una forma conchiusa può arrivare a crearla: almeno è quanto accade qui, tra queste pagine di Julie Otsuka, dove le frange degli elenchi a un certo punto si arrestano e si attorcigliano intorno a un punto preciso, intorno a un evento. Si tratta ancora una volta di un elenco, ma di tipo diverso rispetto a quelli cantilenanti che hanno rigato le pagine precedenti. Questo qui è muto, e ben inchiostrato. È una lista di proscrizione, stilata su ordine di Franklin Roosevelt, che dopo Pearl Harbor contrassegnò i cittadini americani di origine giapponese come nemici da bandire. La lista che così nacque è nera, afona, pura emanazione d'angoscia. E dunque la si scorre di fretta, sperando che finisca subito e che il proprio nome non vi sia tracciato. La si controlla invocando una lacuna, ma se gli occhi finiscono per trovarlo, il nome, allora ci inciampano sopra. Dopodiché devono solo sbrigarsi a sparire. E a srotolare nuovi elenchi: aritmiche variazioni dell'abbandono e della fine. Era da anni che l'autrice voleva raccontare la storia delle spose giapponesi che sbarcarono in America all'inizio del Novecento: "Mi ero imbattuta in tantissime storie interessanti durante la mia ricerca e volevo raccontarle tutte". Il desiderio espresso in questa frase è esaudito. Otsuka riesce a raccontare tutte le vite e dare corpo sonoro a tutte le voci. Ci riesce sfruttando al meglio una modalità narrativa rara e difficile da gestire. Elencando, Otsuka condensa le pretese dell'infinito in uno spazio minimo. In poche pagine declina un'esperienza collettiva, senza mai schiacciarla, modulandola invece in tutte le sue increspature, in tutte le sue differenze. Maria Anna Mariani

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