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Con questo arioso endecasillabo che dà il titolo al libro, Giusi Verbaro introduce da subito la metafora fondante che attraversa le sue tre sezioni: vento inteso come spirito, anima vivificatrice del mondo, turbine che scompagina, assedia e libera, "che trascina le memorie", "che scompiglia i nomi", "che rinnova, a primavera,/ il profumo dei tigli sul viale". Vento, quindi, come metafora della poesia, originata misteriosamente e misteriosamente posseduta da pochi, privilegiati, interpreti... Da questo soffio energico la poetessa si lascia penetrare: "Affacciarsi nel vento e dal vento/ lasciarsi poi scolpire/ e levigare come cera molle". E' un vento che nasce da uno spazio bianco e vergine, di silenzio e di ascolto: da un altrove non conosciuto, di sogno o di estasi, di altezza irraggiungibile o di insondabile profondità. E infatti "sogno" è un altro dei termini chiave di questa raccolta poetica, insieme ai paesaggi lunari, alle risacche marine, e ad altre "essenze misteriose" e quasi esoteriche. Allora echi, ombre, fantasmi, "stranite stanze", "città bianche e spettrali", "creature alate", "anime pellegrine", "sussulti del cuore", aleggiano impalpabili nei versi, animandoli e forse turbandoli: "Lunga notte d'inverno, buia come più buio/ è il misterioso perdersi - negati alle presenze/ e ai rovelli consueti - e dopo ritrovarsi". E i morti, spesso più vivi e incombenti dei vivi, parenti che hanno segnato in maniera indelebile le nostre vite, scrittori che hanno ispirato i nostri pensieri, maestri di poesia in passato vicini e ora ancora più stagliati nella memoria: "Li chiamo tutti piano i nostri morti". Le tre sezioni che compongono il volume rappresentano un orgoglioso recupero della nostra tradizione letteraria, e l' adesione riconoscente all'affettività del ricordo, così come si perpetua nei luoghi e nei sogni, nelle evocazioni e nelle attese, in ogni "spazio bianco".
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